L'ultimo rigore è quello che sbagliò Faruk Hadžibegić ai mondiali di Italia 90, nei partita dei quarti di finale Jugoslavia - Argentina.
Passò l'Argentina (che ci eliminò poi a Napoli infrangendo il sogno delle notti magiche), e il fortissimo squadrone balcanico perse l'occasione di vincere il mondiale.
Il rigore sbagliato diventa, nella vulgata popolare, simbolo di qualcosa che poteva andare diversamente, oltre che il pretesto per raccontare la storia di come andarono quegli anni, con la dissoluzione della Jugoslavia vista dagli occhi di un calciatore, un privilegiato, e di un serajevese.
Personaggi di un dramma che lascia soprattutto incredulità sono tra gli altri Osim, Arkan, Mihajlovic. Bazdarevic. Ovviamente Zvone Boban.
Poteva andare diversamente?
No, lo ammette l'autore.
E cosa sarebbe successo se Faruk Hadžibegić non avesse sbagliato il rigore? Sì, proprio quello, l’ultimo rigore della Jugoslavia, l’atto conclusivo, il sipario. Non sarebbe cambiato niente. Come niente ha cambiato il canestro finale di Savić, suggello sul Mondiale vinto del basket. Perché allora quel rigore è diventato sostanza del rimpianto, atto fatale, svolta, esempio? Perché il calcio è l’infanzia, e l’infanzia è la Jugoslavia. Perché non costa niente sognare. Perché solo qui ha un senso letterale quella sovrapposizione lessicale che altrove suona pornografica. L’attaccante, il «bomber», «spara» una fucilata, se è molto violenta un «missile». Una squadra «cinge d’assedio» l’area avversaria, va «all’assalto». In trasferta «si espugna» il campo «nemico». E via discorrendo con racconti infarciti di parole intercambiabili. Valgono per la guerra e per il calcio. Certo sarebbe stato bello se il calcio avesse invertito l’inerzia di una storia di guerra già scritta.
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