martedì 31 ottobre 2017

Chiare, fresche, e dolci note

You're the best thing (about me) è una normale, classica, grande canzone degli U2.
La riconosci dalle prime note, una schitarrata e la voce pulita di Bono ti fa tornare ragazzo.
Uguali a se stessi e al loro splendore da quasi quarant'anni, pezzi come questo ti ricordano cos'era il grande rock, ti fanno venire la voglia di ascoltare Pride, Sunday bloody sunday, piuttosto che One o What I still. Ma anche The sweetest thing, Stuck in a moment o The Miracle (of Joey Ramone)
Classe infinita, potenza espressiva, la fantastica pulizia di un sound unico.
Grandi e basta.

domenica 29 ottobre 2017

Il sacco del Nord

di Luca Ricolfi
Questo l'ho ripreso in mano ieri, dopo aver discusso con un paio di persone delle prospettive dopo le consultazioni veneta e lombarda.
A margine è divertente ricordare che lo comprai diversi anni fa dopo averlo visto agitare (suppongo intonso) da Matteo Salvini non ancora segretario della Lega ad un talk show; ripensando che almeno questo merito potrà portare quell'uomo al creatore, di aver fatto vendere un libro (per la verità con il concorso della stima che già prima nutrivo per Ricolfi).
E' un testo che a mio modo di vedere dovrebbe essere ampiamente divulgato e conosciuto, per la chiarezza della esposizione (agevolata dalla esposizione in forma discorsiva con rinvio alle note per le tecnicalità, comunque presenti con dovizia), per la originalità del discorso (tanto nella ipotesi quanto nella tesi), e soprattutto per essere una prova che il rispetto del metodo scientifico è dimostrato dalla capacità di accettare i risultati che piacciono di meno.
L'autore è del resto titolare, è ciò dice già moltissimo, di una cattedra di Analisi dei dati, disciplina di cui ignoravo l'esistenza (oltre che pregevole autore di parole di verità sul perchè la sinistra non vince: Perché siamo antipatici. La sinistra e il complesso dei migliori prima e dopo le elezioni del 2008).
La teorizzazione della necessità di una contabilità nazionale liberale, in cui si attribuisce un valore allo spreco e alla evasione, alla sottoproduzione ed al livello dei prezzi eliminando gli effetti distorsivi della quantificazione ai fini del PIL del settore pubblico e ponendo rimedio alla assenza di analisi sulla sua ripartizione territoriale è di estremo interesse (almeno così appare ad un lettore della domenica quale sono io) tanto nelle premesse quanto nella sua formulazione, rendendo incredibili le carenze negli studi che evidenzia l'autore.
Il cuore del libro, certo atteso dai più, sono le parti in cui si forniscono i numeri che dimostrano quanto promesso dal titolo. Senza sconti e non senza sorprese, a proposito ad esempio della produttività della mia regione.

"Insomma nel Sud sono elevati, al tempo stesso, la quota di spesa pubblica allocata in stipendi e sussidi, il parassitismo puro, i tassi di sottoproduzione e spreco. Nel Nord accade esattamente il contrario: spesa pubblica orientata agli acquisti, basso parassitismo, sprechi contenuti"
"Il trasferimento di risorse, dunque, è essenzialmente un trasferimento da Nord a Sud, che priva ogni anni il Nord di un ammontare di risorse che corrisponde a qualcosa come il 7% del Pil market da esso prodotto"
"Il quadro che emerge dal nostro esercizio è estremamente netto in termini aggregati – il sacco del Nord sottrae ogni anno almeno 50 miliardi alle regioni più produttive del Paese – ma diventa alquanto variegato quando si analizzano i conti delle singole regioni"
"Il vero problema di una classe politica che avesse la volontà di fermare il declino è di convincere l’opinione pubblica che il cambiamento è necessario, perché è l’unica alternativa (…) a un lento e inesorabile arretramento del nostro tenore di vita"
 "L'ostacolo principale alle riforme non è l’opinione pubblica, ma sono gli interessi del ceto che tali riforme dovrebbe mettere in atto. È difficile pensare che una classe politica che sull’interposizione pubblica ha fondato il proprio potere decida improvvisamente di restituirci un po’ di libertà"

L'analisi finale, quando si viene al campo delle opinioni sul futuro, lascia il campo a due scenari, su un possibile miglioramento collegato all'introduzione del "federalismo fiscale".
Del secondo, in cui si lascia qualche scampolo alla speranza, pare Ricolfi si sia pentito nella successiva edizione del libro.

Quanto ad un giudizio sulle cause e di merito, sugli squilibri territoriali che descrive, il libro ne è programmaticamente e dichiaratamente privo.

E' la quarta di copertina a porre la domanda. Sono giusti ed accettabili?
La mia opinione è che, anche in presenza di un vincoli di comunanza molto forte, un trasferimento di ricchezza senza limiti temporali diventa difficilmente accettabili e foriero di conseguenze anche catastrofiche.
In primo luogo ciò che emerge dall'analisi è che il parassitismo oltre un certo limite ed in tempo di vacche magre finisce per uccidere anche la gallina dalle uova d'oro. Ricolfi  cita Pareto: “la spoliazione non incontra spesso una resistenza molto efficace da parte degli spogliati: ciò che finisce talvolta per arrestarla è la distruzione di ricchezza che ne consegue e che può portare la rovina del Paese”. 
C'è però, a mio avviso, anche un altro effetto deteriore, che evidenzio con (necessarie) infinite semplificazioni e trascuratezza di cause e complessità di una situazione che è "la questione italiana".
Se ho un fratello che non ha lavoro, certo lo mantengo finchè si tira su. Potrei anche farlo per tutta la vita, se non riesce e forse anche, in virtù di affetto e della forza del vincolo, anche se se ne frega e non si dà da fare per uscirne da solo.
Se scende la forza del vincolo le cose cambiano. Con un vicino in difficoltà, che magari non mi sta nemmeno simpatico, posso accettare di mettere mano al portafoglio ed aiutarlo finchè non ce la fa da solo. Ma certo se dopo un po' vedo che gli basta sopravvivere con i miei aiuti, e non di dà da fare, vorrei smettere di aiutarlo. E magari litighiamo.
Settantanni di sussidi non hanno consentito al Sud di migliorare la propria condizione relativa e di diminuire la propria dipendenza dai trasferimenti di ricchezza dal Nord. In presenza di una vincolo di comunanza già labile in partenza questo rende sempre più difficilmente accettabile la sua continuazione senza un progetto, un termine.
E rischia di finire per lacerarlo, quel vincolo, di distruggerlo.

mercoledì 25 ottobre 2017

Tiki - taka Budapest

di Diego Mariottini
La grande Ungheria è un mito che mi porto dentro dall'infanzia, me ne parlava mio padre.
Nell'ambito dell'attuale trip sui libri "balonieri" questo ha visto il ballottaggio su "La squadra spezzata", di cui Mariottini riporta ampi stralci.
Il testo è ben documentato e soddisfa gran parte della curiosità sul fenomenale undici capitanato da Puskas (forse correndo un  po' veloce sulla "diaspora" dei campioni).
Il leit motiv del libro è tuttavia il significato politico - sociale che la "Squadra d'oro" assunse nella poverissima e illiberale Ungheria dell'epoca, ed il legame fra la sua sconfitta nel Mondiale di Svizzera ed i terribili fatti del 1956.
Come per il rigore di Faruk nel libro di Riva, la ricerca di un nesso fra la sconfitta sportiva ed i successivi tragici eventi (qui sostenuta con maggiore convinzione) mi appare più ipotizzata che dimostrabile.
Mariottini non è certo Brera, e forse eccede nell'inserire l'episodio finale (forse anche la storia di Florian Albert); il riferimento al Barca nel titolo proprio non mi è piaciuto; infine non sono forse riuscito ad immedesimarmi in un Sandor del 1956 come l'autore auspicava.
Tuttavia la lettura mi ha lasciato quel po' di nostalgia dei personaggi narrati che lasciano i buoni libri.

sabato 21 ottobre 2017

L'ultimo rigore di Faruk

di Gigi Riva (il giornalista, non Rombo di Tuono)
L'ultimo rigore è quello che sbagliò Faruk Hadžibegić ai mondiali di Italia 90, nei partita dei quarti di finale Jugoslavia - Argentina.
Passò l'Argentina (che ci eliminò poi a Napoli infrangendo il sogno delle notti magiche), e il fortissimo squadrone balcanico perse l'occasione di vincere il mondiale.
Il rigore sbagliato diventa, nella vulgata popolare, simbolo di qualcosa che poteva andare diversamente, oltre che il pretesto per raccontare la storia di come andarono quegli anni, con la dissoluzione della Jugoslavia vista dagli occhi di un calciatore, un privilegiato, e di un serajevese.
Personaggi di un dramma che lascia soprattutto incredulità sono tra gli altri Osim, Arkan, Mihajlovic.  Bazdarevic. Ovviamente Zvone Boban.
Poteva andare diversamente? 
No, lo ammette l'autore. 
E cosa sarebbe successo se Faruk Hadžibegić non avesse sbagliato il rigore? Sì, proprio quello, l’ultimo rigore della Jugoslavia, l’atto conclusivo, il sipario. Non sarebbe cambiato niente. Come niente ha cambiato il canestro finale di Savić, suggello sul Mondiale vinto del basket. Perché allora quel rigore è diventato sostanza del rimpianto, atto fatale, svolta, esempio? Perché il calcio è l’infanzia, e l’infanzia è la Jugoslavia. Perché non costa niente sognare. Perché solo qui ha un senso letterale quella sovrapposizione lessicale che altrove suona pornografica. L’attaccante, il «bomber», «spara» una fucilata, se è molto violenta un «missile». Una squadra «cinge d’assedio» l’area avversaria, va «all’assalto». In trasferta «si espugna» il campo «nemico». E via discorrendo con racconti infarciti di parole intercambiabili. Valgono per la guerra e per il calcio. Certo sarebbe stato bello se il calcio avesse invertito l’inerzia di una storia di guerra già scritta.

Colazione da Tiffany

di Truman Capote
Penso di essere fra i pochissimi: ho letto il libro senza aver visto il film. Niente snobismo, mancanza sul lato cinematografico e voglia di prendere in mano Capote dall'altra.
Lettura piacevole e integrante, la scrittura è veramente di gran livello. 
Il romanzo è lei, ragazza "selvatica", sregolata indulgente e autoindulgente, perfetto oggetto di vera poesia.
E di un tipo di amore diverso, di quelli che fanno dire al narratore semplicemente: Mi domandai qual era il suo nome, perchè ero sicuro che ormai ne aveva uno, ero sicuro che era arrivato in un posto che era il suo. posto. E, capanna africana o quel che sia, spero lo stesso anche di Holly.

Il giudice e il generale

di Luis Sepulveda.

Raccolta di articoli scritti attorno agli anni in cui il giudice spagnolo Garzon provò a incriminare Pinochet (notizia di cui apprese a Udine!).
Perfetto per il mio trip sulla storia delle dittature sudamericane.
Sepulveda ricorda gli anni della giovinezza e della speranza di un mondo migliore. Speranza uccisa, non solo metaforicamente, dalla parte della società cilena che inventò e sostenne il sanguinario dittatore.
Ma forse ancor di più da coloro, molti, che non si schierarono: Lo capisco con tristezza, perché non sa cosa si è perso ad autoemarginarsi da quel bel sogno di trasformare una società chiaramente ingiusta.
E poi da coloro, che, dopo il passaggio alla democrazia vigilata, non pretendevano che si facesse giustizia sul passato.
Non si dimentica nè si perdona.
E certo in queste pagine npon troviamo le ragioni della (real)politica, ma  le ragioni della letteratura (perchè scrivo), oltre a quelle del cuore. 
Scrivo dalla solitaria barricata del creatore di mondi e, con le parole di Osvaldo Soriano, «dalla responsabile soddisfazione di chi sa di essere stato invitato ad abitare nel cuore della gente migliore».

Il minuto di silenzio

di Gigi Garanzini
Che grande idea, la Spoon River del pallone!
Ritratti di decine di campioni che ci hanno lasciato, ricordati con un aneddoto, un episodio, una giocata: giusto un minuto, al massimo due, per leggerne uno.
Divorato.
Scopri chi era Pedernera, rimaledici l'arbitro Aston, ripassi chi era Cesarini, immagini le cannonate di Levratto.
La formula lascia la curiosità di saperne di più su molti di loro (e invita quindi a nuove letture).
Inevitabilmente il pensiero corre anche ai molti campioni non menzionati perchè sono ancora tra noi, e che quindi impediscono che questa possa essere "una storia del calcio" (senza Pelè e Maradona?).

Fare l'amore

di Rossana Campo
La folgorante scoperta di Michele Mari mi ha indotto a vincere il mio antico tabù per i romanzi dei viventi: capovolgendolo con un nuovo trip per gli scrittori miei coetanei (più o meno).
Questo della Campo, interessante per alcune trovate stilistiche (tipo dei capitoli che sono trascrizioni di chat) è un libretto sulla passione, ma soprattutto sul modo diverso in cui un uomo e una donna (non) vi si abbandonano.
Non una buona idea, aver letto Mari prima. 
Un po' come veder giocare Messi e poi trovarsi la domenica Kevin Lasagna.

Storie dal fondo

di Massimiliano Santarossa
Ho approcciato Santarossa qualche anno fa per mera simpatia per un coetaneo e quasi conterraneo che scriveva. Il libro era "Cosa succede in città" e non mi ah lasciato grandi tracce.
L'anno scorso, a Pordenonelegge trovandomi al padiglione della Biblioteca dell'Immagine mi sono imbattuto in una selva di "Padania" e ho deciso di prenderlo. Con la simpatica appendice che a venderlo, dall'altra parte del tavolino, c'era lo stesso Santarossa. Gli ho detto: "E' la prima volta che compro un libro direttamente dall'autore". 
Padania mi è piaciuto. Una scrittura a suo modo potente, un ritratto di un domani che è già oggi in cui il benessere economico e la ricerca del piacere non riescono a coprire quel buco dentro.
Quest'anno, di nuovo a Pordenonelegge, ho visto che ne hanno fatto una trilogia con "Gioventù d'asfalto". E prendiamola.
"Storie dal fondo" racconta storie periferiche, non tanto perchè ambientate Villanova, ma per il tipo umano che tratteggia (i nove su dieci che non ce l'hanno fatta). 
Tutti con quel buco dentro, di cui parlava il protagonista di "Radio Freccia", e che è il vero protagonista di tante delle prime canzoni del Liga.
Ecco, Santarossa lo vedo un po' come Ligabue. 
Non è certo Bob Dylan, la voce è un po' così, quelli di cui parla sono ragazzi (uomini) molto diversi da me, le sue canzoni suonano tutte uguali. 
Ma è uno che riconosco.

Caporetto. Storia e memoria di una disfatta

di Nicola Labanca
Ormai da qualche anno indirizzo parte delle letture sul filone delle ricorrenze, fruendo con ciò anche di talune novità editoriali sfornate per l'occasione. E questo è l'anno del centenario di Caporetto.
A Estoria ho partecipato ad un incontro con Labanca sull'argomento, che preannunciava l'uscita di questo libro.
Detto fatto, l'ho ordinato prima che uscisse e poi letto (divertente) nel mese di pubblicazione.
E' un testo interessante e positivamente caratterizzato dalla mole non eccessiva, che permette di non perdersi fra i dettagli militari. 
Una prima sezione ripropone un precedente studio sulla documentazione allegata alla Relazione ufficiale dell'inchiesta su Caporetto. 
Nella parte centrale la descrizione degli eventi, oltre ad attribuire il giusto spazio al punto di vista dei vincitori, conferma la spiegazione militare della rotta, senza con ciò negare che lo scollamento fra le motivazioni delle truppe e la condotta cadorniana della guerra ebbe un suo ruolo.
E' un testo di sintesi in cui, come sempre per questo autore, trova ampio spazio la descrizione della storiografia sugli eventi trattati, che mai come in questo caso assume grande importanza.

Il romanzo del vecjo

di Gigi Garanzini

Un po' autobiografia, un po' intervista, questo libretto è un gradevole ritratto di quell'hombre vertical che fu Bearzot. 
Il centro ovviamente è l'epopea del mundial, non solo perchè fu l'apice di una carriera (e della storia del calcio italiano), ma per i riflessi personali di una vicenda in cui il tipo d'uomo che era lui si contrappose alla canea degli altri, avvoltoi e poi opportunisti.    
Garanzini che già scrisse, forse con maggiore partecipazione, "La leggenda del Paròn", delinea così le caratteristiche (e quindi la continuità) dei due maestri: "Rocco aveva inventato lo spogliatoio, lui inventò il gruppo".
Non meno interessante il giudizio di Brera: "Predica male, razzola bene".
Costruì una grande squadra, fece due mondiali alla grande vincendo il più difficile di sempre, poi fallì  (ammissione) l'appuntamento con il rinnovamento che serviva.
Fu uomo di contrapposizioni: vedere i giudizi su Allodi, Sacchi, Matarrese.
Interessante anche i continui riferimenti alle origini friulane, i ricordi di un piccolo mondo antico che forse non c'è più (grandi analogie, su questo, con il libro di Zoff).
Ingiustamente dimenticato.
Nella foto accanto al Presidente: il più grande allenatore friulano, il più grande giocatore friulano, il capitano dell'Udinese.

lunedì 16 ottobre 2017

Giorgiana Masi. Indagine su un mistero italiano

di Concetto Vecchio
Bravo il giornalista di Repubblica a ricostruire, dopo quarantanni, con il piglio di un cronista d'antan, questo episodio sconcertante. 
Giusto Massimo Bordin potrebbe avere qualcosa da puntualizzare.
Restituendo un po' di umanità ad una ragazza che certo non desiderava divenire un'eroina nel pantheon radicale, molta è l'attenzione al clima in cui si preparò la tragedia, ed al modo in cui vi parteciparono i principali protagonisti, in primis Cossiga per una volta forse tradito dalle sue amate forze dell'ordine, e poi Pannella la cui profezia ha talmente colpito l'autore da essere il motivo per cui il libro è stato scritto. E poi Luca Boneschi, cui il tributo deriva non da parole e giudizi dell'autore ma semplicemente dalla descrizione del suo operato.

Canone inverso

di Paolo Maurensig

Mi aveva preso parecchio, il film di Ricky Tognazzi visto ormai molti anni fa.
Il libro è anche meglio, fino alla duplice sorpresa finale.
Da rileggere per apprezzare meglio gli indizi seminati dall'autore.

Caporetto, una battaglia e un enigma

di Mario Silvestri

Letto con grandi aspettative, questo saggio di un ingegnere nucleare, storico autodidatta.
Mi attirava comprendere quale fosse il carattere nazionale di cui la disfatta si dimostrò momento rivelatore.
La descrizione dei fatti militari è estremamente precisa, ma talmente dettagliata da far perdere il quadro d'insieme ad un lettore frettoloso quale sono stato in questa occasione.
Miravo al punto.
La tesi è che la causa del disastro furono arretratezze psicologiche e tecniche, tare burocratiche e insensibilità del corpo comandante. Tale insipienza della leadership non sarebbe circoscritta a quell’episodio storico, alle stanze dello stato maggiore dell’epoca, ma al contrario permea di sé lunghi tratti di storia patria ed è destinata a manifestarsi in ogni epoca o situazione allorché faccia capolino quella che lui chiama l’Italia caporetta.

Certi passaggi meritano citazione per intero:
L’Italia caporetta non è l’Italia delle giornate di Caporetto: quelle sono la cartina di tornasole. L’Italia caporetta è soprattutto quella che prepara Caporetto. Caporetto ( ) viene da lontano e va lontano. E’ caporetta l’Italia che ( ) crea le condizioni favorevoli alla nascita di una sensazione individuale di scoramento interno, di frustrazione, di senso di inutilità delle proprie azioni, che si concreta nel rifiuto a contribuire all’alimentazione di una spiritualità nazionale.
Eppure l’Italia, fatta di tremila anni della più ricca storia del mondo, è un patrimonio, cui anche l’Italiano inconsapevolmente non rinuncia. E allora dalle Caporetto storiche scaturiscono delle sorprendenti rivincite, che si esplicano nelle forme più diverse: esse vanno ( ) dalla difesa del Grappa e alla rinascita economica del secondo dopoguerra. Finché la memoria corta, frutto dell’ignoranza di fondo, riproduce il corrosivo meccanismo di autolesione, che costringe a ricostruire dal principio. E’ un succedersi vichiano di malgoverno degli uomini, sopravvissuto indenne, passando dal calesse all’aereo supersonico, dall’abaco al calcolatore elettronico.
L’Italia caporetta è, prima di tutto, l’Italia priva del senso delle proporzioni. La carenza dei corrispondenti freni inibitori prepara il terreno alle Caporetto storiche, che possono essere innescate da una causa qualsiasi e assumere contorni impensati.
Se a Cadorna affibbio l’epiteto di caporettista, lui che di Caporetto fu la più illustre anche se colpevole vittima, è proprio per la mancanza di senso delle proporzioni, che nel maggio del 1916 gli faceva sostenere con Orlando che, siccome la Germania teneva sotto le armi otto milioni di mobilitati, noi, con metà popolazione, potevamo tenerne quattro, e che nel 1917 gli faceva vaneggiare un esercito di 90 divisioni. Così dilatava l’esercito, ma non lo addestrava né si sforzava di intuire in che direzione l’addestramento dovesse essere perfezionato, preparando in tal modo il terreno per la sconfitta di Caporetto.
( ) alla mancanza del senso delle proporzioni si aggiunga una superficialità, frutto di scarsa cultura, che si trasfonde principalmente nel tentativo inconscio di perpetuare l’ignoranza, trascurando l’addestramento, l’educazione e l’istruzione delle nuove generazioni. L’italiano di successo – e ce ne sono moltissimi – è sempre un autodidatta spirituale, che poco deve alla società politica, che pur lo spreme, ferocemente ma all’impazzata, senza riuscire a dare ciò che pur sarebbe nelle sue intenzioni. Caporettismo è un confondere i sintomi con le cause.

Parole sante (che condivido, anche se il legame con la descrizione del fatto storico non l'ho trovato così riuscito), in particolare quelle che ho sottolineato ricordando le volte che con orrore ho constatato l'autocompiacimento cui indulgiamo quando vantiamo la nostra capacità di agire nell'emergenza: bravi e geniali a riuscire in condizioni impossibili, ma perchè dobbiamo rifuggire dalla noiosa eventualità di evitarla, l'emergenza, con la semplice programmazione e preparazione?  
Silvestri scrive rivolto alla classe dirigente degli anni '80.  A rileggerle trent'anni dopo, certe invettive, con Di Maio candidato a premier e Alfano ministro, viene da sorridere.

Di particolare interesse, nel libro, sono le parti in cui si ricordano le iniziative per fermare il modo cadorniano di fare la guerra di Michele Gortani  e di Giulio Douhet.  

domenica 15 ottobre 2017

Le due battaglie dell'atlantico

di Antonio Martelli



Ho scovato questo bel libro per soddisfare un'antica passione per i sottomarini e le loro vicende eroiche (e per la battaglia di Jutland).
Muovendosi sull'idea di fondo, ormai diffusa, che vi sia stata un'unica grande guerra da 1914 al 1945, l'autore affronta la materia della guerra subacquea alternando l'attenzione dettagliata agli aspetti più tipici di una storia militare, all'epopea industriale della costruzione delle grandi flotte, agli aspetti strategici, ai profili umani dei principali protagonisti, in primis Donitz.
La sintesi che ne trae è che la guerra subacquea, unica a poter veramente spostare il corso degli eventi, non fu vinta per l'incomprensione della sua necessità, che portò ad un decisivo ritardo nelle costruzioni dei battelli, oltre che per i successi dell'intelligence (commosso il ricordo finale di Turing: La sua fine è un emblema di quanto le società umane siano spesso ingrate nei confronti degli eroi cui devono la loro salvezza).   
Non manca, insieme al tributo per l'ingegno di alcuni comandanti, la giusta menzione delle inumane condizioni in cui migliaia di marinai vissero, combatterono e morirono.

domenica 8 ottobre 2017

Uno di famiglia

Ti sia lieve la terra, Aldo Biscardi.
Fra i volti della tv, uno fra i più noti, imitati, discussi, dileggiati; talvolta eletto a simbolo negativo di italiche virtù.
Nei coccodrilli e nelle aneddotiche tutto si stempera, giustamente, ed a restare è la sua immensa popolarità.
Il processo lo si guardava di nascosto, lo si commentava premettendo "l'altro giorno, per caso, ho girato un minuto sul processo e...".
Diventato personaggio ci giocava non senza autoironia (che è già molto) e sapendo fare i conti.
Ma era un professionista, un uomo con delle idee, e un giornalista che sapeva il suo mestiere (al giorno d'oggi cosa divenuta fatto rimarchevole e rimarcando; fra poco forse nemmeno questo sarà più, temo).
Mi piace ricordarlo come uno di famiglia; un vecchio zio che non si vede da tempo, e con cui magari il rapporto non è mai stato così stretto.
Un po' di bene, però, gliene volevo, e mi dispiace che se ne sia andato.
E poi, diciamolo, sapere che non c'è più, ricorda il tempo che se ne va, inesorabile, e quel bambino che sognava un pallone che rotola.
Tristezza, per favore, vai via.