di Sergio Maldini
Che gran sorpresa, questo romanzo rimasto sullo scaffale venti anni.
Il nostro Friuli, e non quello delle grandi misconosciute bellezze, ma quello placido e silenzioso di una bassa che più ordinaria non si può, elevato ad una sorta di Arcadia, in cui è (era) ancora possibile trovare il senso di un'esistenza.
Un giornalista, intellettuale raffinato che sente il peso dell'incompiutezza personale, in una Roma che percepisce distante, che non gli ha consentito di realizzare i suoi sogni letterari nè di trovare persone con cui instaurare un sodalizio intellettuale ed umano, decide di tornare nella terra in cui fu liceale (stelliniano, come l'autore), e provare a costruirvi una casa che è al tempo stesso vuol essere la felicità mai trovata.
Persone e luoghi che conosce divengono l'oggetto di un amore sincero per una terra che ancora riesce (riusciva) ad evocare valori e sensazioni di una civiltà rimasta profondamente umana, e che il protagonista sente di dover "consegnare" ad altri: "le sensazioni sopravvivevano nel tempo, perchè in ogni epoca erano più o meno le stesse".
Maldini da Santa Marizza ci porta a Varmo, Bertiolo, Gonars, Codroipo e Nespoledo, descrive i canevon, gli spoler ed i fogolar. Ci fa conoscere principesse di stirpe secolare, figlie di mulinai, contadini e muratori, ingegneri e industriali della sedia. "Marco sbirciò i 'suoi' friulani... Gli uomini alti, dall'arti interrogativa, le donne robuste, il viso aperto alla lealtà (in amore o tutto o niente, senza i ritardi volgari della reticenza borghese), talvolta i polpacci simili a bottiglie gonfie (ma non erano forse così i corpi dell'arte classica?) una spontanea familiarità".
Il correre delle stagioni, il piacere della conversazione, le figure della storia, i riti dell'amicizia ed il trepidare per nuove passioni coinvolgono Marco in una vicenda in cui non c'è slancio affrettato, ma una calma lentezza, che lascia anche spazio all'irresolutezza finale
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