di Andrea Graziosi
Si dovrebbe sempre tendere ad aprire la mente, a cercare spiegazioni e letture di quel che accade diverse, o ad un livello più alto, rispetto alla visione che ci offre la nostra intellettualità.
Andrea Graziosi illustra perchè il nostro errore di guardare sempre gli altri mondi con i nostri occhi (di antichi dominatori) si somma al venir meno del sostrato materiale nel quale si sono formate la nostra visione del mondo e le categorie concettuali con le quali lo osserviamo: "E' necessario rivedere le nostre idee, le nostre categorie, la nostra interpretazione del passato oltre che del presente. Perchè anche le categorie e le interpretazioni, come tutti gli oggetti storici, deperiscono e alla fine si inabissano, o cambiano talmente di significato da diventare creature nuove, malgrado portino il vecchio nome".
Il noi è quello che Graziosi definisce "Occidente maggiore", quella versione (uno degli "Occidenti") del mondo europeo sorto nel 1500 ed in fase calante dopo la WWI, che nacque dopo il 1945 dall'associazione tra gli Stati Uniti e l'Europa Occidentale. Un "impero informale e liberale" che ebbe il suo apogeo nei trentanni successivi al dopoguerra, entrando in crisi negli anni '70, avendo modo di illudersi della sua vittoria dopo la sconfitta dell'Occidente minore sovietico nel 1991, ed entrando definitivamente in crisi dopo il 2008 e le presidenze americane del disimpegno di Obama e Trump.
Oltre che dell'autoidentificazione con il mondo libero, questo Occidente si caratterizzava per una fiducia in un miglioramento continuo delle condizioni di vita, legato ad una favorevole situazione economica il cui perdurare ha avuto il paradossale effetto di farne dimenticare la natura contingente. Il venir meno della base materiale che rendeva possibili tali aspettative, con i suoi molti effetti negativi, è la situazione che stiamo vivendo, e nelle sue cause, sfaccettature e conseguenze costituisce l'argomento su cui esercita Graziosi, con notevole sforzo di sintesi unita ad ammirevole capacità multidisciplinare.
L'autore si esercita in primis sulle definizioni dei caratteri tanto del "Primo moderno", quanto del "Moderno maggiore" e del "Moderno minore", per poi individuare i motivi della crisi del secondo.
Si tratta in primo luogo del declino demografico, combinato effetto dell'aumento della speranza di vita e della minore natalità, da cui deriva un rapido e vistoso invecchiamento della popolazione. Oltre che i termini numerici, Graziosi descrive la presa di coscienza e le varianti di questa tendenza, ma soprattutto ne evidenzia la ragione eminentemente psicologica che la rende caratteristica comune di tutte le società che raggiungono buoni livelli di benessere. Ne delinea poi le conseguenze in termini di psicologia collettiva (società più vecchie, conservatrici, ostili all'innovazione e all'apertura), economici (struttura dei consumi e costi del welfare), politici (effetti della delusione delle aspettative di miglioramento).
Altro elemento critico è il declino del mondo contadino, con l'esaurirsi di una riserva di risorse che consentiva un costante aumento della produttività.
Vi sono poi la crescente presa di coscienza dei problemi dello sviluppo, gli effetti della decolonizzazione e quindi la fine del dominio europeo sul mondo, e la migrazione del motore economico del mondo verso oriente.
Le conseguenze del declino economico e politico si riflettono soprattutto in termini di fine delle aspettative crescenti. Ne derivano risentimento verso le elite che non possono più mantenerle, diffidenza verso le riforme che sarebbero necessarie, ansia diffusa per il timore di mobilità sociale discendente, condizioni di svantaggio per le generazioni giovani.
Ad esse si aggiunge una maggiore complessità della stratificazione sociale, in cui ad un maggior ruolo del talento individuale si introducono differenziazioni (età, colore, cittadinanza) di sempre maggiore rilevanza, e che introducono problemi nuovi.
La crisi si manifesta, oltre che nel declino demografico, nella contrapposizione tra centri (di solito urbani, ovvero oltrenazionali) "luminosi" molto attivi ed attrattivi, ed una periferia declinante e depressa, nonchè nella crisi dei due modelli politici caratterizzanti il Moderno maggiore, il modello elite-masse e l'equivalenza tra democrazia e libertà. Quest'ultima non appare più elemento assiomatico, ove il rispetto di procedure "democratiche" per la scelta dei governanti non è sempre associato (si pensi alle democrature) a regimi effettivamente liberaldemocratici.
La crisi della liberaldemocrazia si compone di vari aspetti che Graziosi brevemente descrive: la rivoluzione delle aspettative descrescenti (in periodo di crescita continua governare significava distribuire la nuova ricchezza, eliminando privilegi e rendendo possibile una crescita dell'omogeneizzazione, ma anche la sostanziale tenuta del sistema rappresentativo); il rapporto tra governanti e governati, elite e popolo (ora ogni errore diventa visibile perchè le risorse sono scarse e sono sottratte ad altre misure necessarie; le scelte necessarie sul lungo periodo sono impopolari nel breve, danneggiando i rappresentati che si sentono traditi e si rivolgono a chi è pronto ad ammannire facili promesse impossibili da mantenere; le elite sono accusare di tradimento, in uno con innovazione e globalizzazione viste come rottura del patto sociale che prima funzionava); la formazione di un nuovo "bacino reazionario" (invecchiamento, sentimento di svalutazione dei maschi, avversione all'immigrazione e analfabetismo di ritorno comportano per molta parte della società un'ostilità verso il cambiamento identificato nella globalizzazione); la natura complessa delle riforme ed il rapporto nei loro confronti (che oltre a disputare le poche risorse disponibili, tendono ad ampliare la sfera di intervento dello stato); la spinta ad una direzione tecnico amministrativa delle società, originata dalla loro crescente complessità (con svilimento delle tradizionali prerogative degli organi più strettamente politici); le nuove tendenze leaderiste; la nascita di nuove società plurali. C'è in sostanza, un grande interrogativo sul fatto che la liberaldemocrazia come l'abbiamo sempre pensata (quasi come forma politica "naturale" e destinata a durare per sempre) fosse possibile solo nelle condizioni economiche date e non più presenti, ed ora ci si trovi di fronte ad conflitto tra spinte demagogiche e tendenze elitarie.
Ad avviso di Graziosi guardiamo "e cerchiamo di affrontare un mondo nuovo con discorsi non solo invecchiati, e divenuti per questo inadatti e privi di forza, ma anche sostanzialmente falsi". Esamina quindi il nostro modo di porci di fronte ad alcune grandi questioni, nel mondo nuovo che è bene conoscere, dividendole tra quelle "progressiste" e quelle di "chiusura".
Nel primo campo un'ideologia soggettivista dell'azione, quella socialista, che aveva presupposti errate ma idee chiare, è stata sostituita da un generico "buonismo di sinistra", teso ad affermare principi generici collegati a "pulsioni benevolenti", da cui non emerge un chiaro progetto del tipo di società che si vuole e del modo di costruirla (ai tempi era il rimprovero che facevo al Veltronismo), peraltro con spirito paternalistico e talora sprezzante di cui si sente ferito dai cambiamenti del mondo moderno. Graziosi enumera una serie di sostituzioni concettuali che esemplificano questo passaggio: i popoli e non le classi; l'individuo e non il collettivo, i diritti collettivi di gruppi specifici e non l'eguaglianza di fronte alla legge; il merito al posto dell'eguaglianza; i limiti dello sviluppo anzichè lo sviluppo; l'ecologia e non la conquista della natura; il piccolo è bello e non i grandi progetti.
Due punti sviluppati da Graziosi appaiono di particolare interesse. Il primo evidenzia gli effetti negativi di un discorso pubblico incentrato sui diritti. Il crescere delle possibilità in una fase di miglioramento continuo ha reso talune di tali possibilità oggetto non di legittime ambizioni, ma di diritti al tempo stesso giuridicizzati e divenuti parte del patto sociale; la cosa nei tempi buoni aveva i suoi svantaggi come la giuridicizzazione della politica (ahi ahi), ma teneva; in tempi di risorse calanti, apre una distinzione tra diritti politici civili, legati alla non interferenza, che continuano a poter essere garantiti, e diritti economico sociali, per i quali c'è un tema di sostenibilità (con una frattura importante, e molto in tema di immigrazione, tra i cittadini che ne godono e gli essere umani, non cittadini, che ne sono esclusi). Di fronte a questo le società divengono "spontaneamente conservatrici", mentre di nuovo le elite che non li garantiscono sono accusate di tradimento.
Il secondo aspetto è il discorso del merito, combinato con le apri opportunità, sul quale Graziosi formula critiche non banali, a tratti sorprendenti. Il presupposto di tale discorso sarebbe il mondo è naturalmente dotato di un meccanismo che, se depurato dai privilegi, è in grado di renderlo automaticamente giusto, narrazione che giudica sostanzialmente conservatrice. "L'idea che basterebbe potenziare quel meccanismo liberandolo grazie a riforme anche radicali degli intralci che ne frenano l'azione, per vivere in un mondo migliore, per quanto razionale, contiene inoltre un'illusione e un errore, entrambi fondamentali". L'illusione è che l'ideale mondo retto dal merito non porti ad una nuova stratificazione sociale, inevitabile frutto anche di una dimensione collettiva che è ineliminabile (privilegi ereditati, fortuna, caso). L'errore è postulare l'uguaglianza degli uomini: gli uomini sono diversi per natura e capacità, affidarsi ad un merito legato ad esse appare un ragionamento che giustifica l'affermazione di chi la natura, le genetica e quindi il caso ha voluto più forte. La giusta eliminazione dei privilegi non deve far dimenticare che l'ascesa dei talenti genera una nuova gerarchia, appunto fondata sui talenti, cui non può automaticamente attribuirsi la qualifica di giusta, pena considerare che vi siano i "giustamente dottori" a fronte dei "giustamente camerieri", con le inevitabili conseguenze psicologiche. La proposta di Graziosi è quindi di denominare tale discorso quale "talentocrazia" piuttosto che "meritocrazia", unitamente all'avvertenza sulla non automatica giustizia che esso genera.
Analoghe osservazioni critiche vengono riservati ad altri discorsi "progressisti": quello sulle pari opportunità basato su diritti collettivi dei gruppi, cui è da preferire un discorso repubblicano alla francese; quello dei piani (si pensi allo stesso PNNR), cui sono da preferire ragionamenti aperti sul futuro; quello apocalittico sulla scienza, che affronta problemi fronteggiabili solo con uso della ragione e sviluppo tecnologico.
Nella parte finale, dopo aver brevemente esaminato i "discorsi di chiusura" (grandezza perduta, idee no global; la tematica della sicurezza e quella dei ruoli di genere), Graziosi evidenzia come bisogna abbandonare le vecchie teorie su cosa fosse un "mondo giusto", conservando i buoni ideali che le avevano ispirate, con un pragmatismo che cerchi di conservare quanto di più possibile il benessere ed il modo di vivere che ci ha garantito il Moderno maggiore, testimoniato anche dalla forza attrattiva che ha sempre esercitato, sempre sorretti dal criterio della ragione.
Graziosi ammette di non poter fornire un nuovo discorso liberaldemocratico, nuove soluzioni, per anagrafe e incapacità.
Figuriamoci io.
Forse ci accomuna la speranza, che le nuove generazioni, cui pure talvolta riserviamo la sfiducia dei vecchi, sappiano vedere loro, con occhi nuovi, oltre al mondo nuovo nuove soluzioni che nemmeno siamo capaci di immaginare.
Nessun commento:
Posta un commento