Con un saggio di spessore intellettuale e civile Alessandro Barbano affronta un tema cruciale della nostra vita pubblica, l'amministrazione della giustizia, offrendo una visuale inconsueta su aspetti non altrettanto noti quanto i ricorrenti (si fa per dire) aspetti delle inchieste spettacolo e dell'irresponsabilità degli inquirenti a fronte dei numerosi errori giudiziari.
È un libro con molti fatti, di cui viene offerta una chiave interpretativa che si pone nel solco della lezione di Sciascia, ove individua nel protrarsi di un diritto fondato sull'emergenza un pericolo per la libertà.
L'oggetto principale dell'attenzione di Barbano sono le misure del codice antimafia, estese poi ai reati corruttivi. Barbano ne analizza l'origine storica e le caratteristiche strettamente tecniche (in specie i presupposti delle misure di prevenzione antimafia nella loro diversità da quelle che fondano l'accertamento dei reati e le misure di prevenzione "costituzionali"), per evidenziare la loro devianza dai principi costituzionali, ed il loro fondamento in uno stato di eccezione sul quale ritiene doveroso soffermare una attenta riflessione.
Secondo Barbano il tempo nel quale tale stato di eccezione poteva essere sussistente era necessariamente limitato e da tempo passato, ed oggi il protrarsi di questo "diritto dell'eccezione" non giustifica le limitazioni ai diritti e alle libertà costituzionali che provoca, e di cui narra la concretezza raccontando diverse storie di persone la cui esistenza è stata stravolta in circostanze di cui si stenta a credere.
Tanto più in un contesto in cui l'amministrazione delle aziende sequestrate, all'esatto opposto della vulgata corrente, vede una generale distruzione del loro valore con una grandissima preponderanza delle aziende in che vengono liquidate, ed in cui la burocrazia che ne è incaricata si caratterizza per un funzionamento tutt'altro che trasparente e decisamente costoso, del tutto distanti dai canoni che vengono ritenuti accettabili nell'agire amministrativo.
Insomma l'intero sistema si regge su quello che Barbano non esita a definire un inganno, che l'antimafia come è oggi definita debba essere ripensata senza avere il timore di essere accusati di essere corrivi con la mafia.
Non mancano dei capitoli dedicati ad altre più note anomalie del funzionamento della macchina giudiziaria, dalle inchieste spettacolo del procuratore Gratteri all'ostacolo ostativo, di cui Barbano è non da oggi un fiero critico.
Il suo ancoraggio è ad un diritto penale liberale, e alla ferma convinzione che siano il rispetto delle regole, lo stato di diritto, ciò che fondano la vero forza dello stato rispetto alla violenza delle organizzazioni criminali, e che le consentono nel lungo periodo di prevalere restando fedele ai suoi principi.
Il pensiero corre inevitabilmente, per quanto Barbano ne rifugga per pudore, alla nota posizione di Sciascia di cui al famoso articolo sui "Professionisti dell'antimafia", nel solco di una definizione che (non mi ricordo dove) ho ascoltato qualche tempo fa: "il diritto è l'alternativa storica alla violenza".
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