sabato 16 maggio 2020

La società parassita di massa

La società parassita di massa è l'involuzione che Luca Ricolfi teme della da lui descritta "società signorile di massa".
Mi spiego: nella società signorile il parassitismo di chi non lavora convive con un notevole benessere, che accomuna la minoranza dei produttori e la maggioranza dei non produttori. Nella società parassita di massa la maggioranza dei non lavoratori diventa schiacciante, la produzione (e l’export) sono affidati a un manipolo di imprese sopravvissute al lockdown e alle follie di stato, e il benessere diffuso scompare di colpo, come inghiottito dalla recessione e dai debiti. I nuovi parassiti non vivranno in una condizione signorile, ma in una condizione di dipendenza dalla mano pubblica, con un tenore di vita modesto, e un’attitudine a pretendere tutto dalla mano pubblica, con conseguente dilatazione della “mente servile”, per riprendere l’efficace definizione di Kenneth Minogue.
Speriamo non sia buon profeta.
A me, da quando è scoppiato questo casino, per la prima volta pesa non essere in quella minoranza dei produttori, con mille difetti come le altre categorie, ma che indiscutibilmente è il motore è la fonte del nostro benessere.


domenica 10 maggio 2020

C'è solo un Franco Baresi

Ha compiuto 60 anni, il capitano.
Ne aveva molti meno, in questa foto, la stessa che stava su uno dei miei quaderni, in terza elementare.
Allora era il capitano di una squadra povera e mediocre, due volte retrocessa e che due volte seguì in  B, in una società (quella di Farina) che non poteva nemmeno lontanamente sognare la grandezza che avrebbe vissuto con la nuova proprietà.
Per tutti i milanisti si creò così un legame unico, ben descritto dal coro a lui riservato, che titola questo post.
Quando l'avvento di Berlusconi cambiò il calcio italiano, fu il capitano grandissimo di quella squadra unica, in qualche classifica votata come il miglior club della storia del calcio; ma provate a chiedere ad un vero tifoso che abbia vissuto quei momenti, e tra campionissimi come Gullit, Maldini, Van Basten e Donadoni nessuno avrà dubbi nell'indicare il giocatore più amato, il capitano.
Tecnico, veloce, feroce marcatore, abile nell'impostazione, fenomenale nella scelta dell'intervento. Un difensore perfetto, completo nell'era che ha preceduto quella dei marcantoni che imperano nelle difese attuali. Capace di interpretare con ineguagliata classe il gioco a uomo e quello a zona, anche nella versione da "eretismo podistico", la sua bravura era tale da consentirgli di essere scelto, per la nazionale, anche fuori ruolo (a centrocampo, da Bearzot).
«Baresi II è dotato di uno stile unico, prepotente, imperioso, talora spietato. Si getta sul pallone come una belva: e se per un caso dannato non lo coglie, salvi il buon Dio chi ne è in possesso! Esce dopo un anticipo atteggiandosi a mosse di virile bellezza gladiatoria. Stacca bene, comanda meglio in regia: avanza in una sequenza di falcate non meno piacenti che energiche: avesse anche la legnata del gol, sarebbe il massimo mai visto sulla terra con il brasiliano Mauro, battitore libero del Santos e della nazionale brasiliana 1962.»
(Gianni Brera, la Repubblica, 3 gennaio 1992)
Brera poteva permettersi classifiche e tutto quanto voleva. E nelle molte, anche internazionali, che si trovano è tra i difensori secondo solo a Beckenbauer (ma contro il parere di Brera che lo preferisce). Per me è sterile discutere se fu più grande di altri fenomeni (Scirea, Cabrini, Maldini, Nesta, Cannavaro, per limitarsi agli italiani); credo però gli si debba riconoscere, ineguagliato, quel carisma che guidava i compagni e intimoriva gli avversari (e qualche guardalinee).
Ha rilasciato in occasione della ricorrenza due belle interviste in cui dichiara il suo amore per il Milan e dimostra i valori che lo hanno fatto grande, forse riassumibili nelle parole di MaldiniIl tuo modo di essere mi ha sempre impressionato e mi ha insegnato tanto: poche parole e tanti fatti.
Che bandiera.


giovedì 7 maggio 2020

Una storia semplice

di Leonardo Sciascia
Sì, semplice...
Romanzo breve ma di rara intensità, si presta ad una lettura come una semplice storia.
Un omicidio, le indagini, la scoperta del colpevole.
L'epilogo, che dà poi un senso ai molti richiami disseminati nel testo, capovolge l'interpretazione e  spiega a noi poveretti, come farebbe Isidro Parodi a Ginevro Montenegro (la pomposa dabbenaggine fatta persona), quel che era evidente ma non avevamo capito.   
Protagonista del libro non è il traffico, quell'altra piaga secolare della Sicilia, che Sciascia nemmeno nomina.
All'appello ci sono  il commissario, il procuratore, il questore, il prete, il colonnello dei carabinieri, il capostazione. Pochi altri li chiama per nome, forse perchè sono i veri uomini (direbbe Don Mariano). 
Man mano che si scoprono come preziose gemme alcune, quei pochi tra i riferimenti e le citazioni che è dato comprendere alla nostra povera intellettualità, si immaginano gli altri.
Quanti saranno?
Quante volte dovremo e vorremo rileggerlo per cercarli?

mercoledì 6 maggio 2020

L'Affaire Moro

Di Leonardo Sciascia
Nato come qualcosa di simile ad un instant book sul caso Moro, questo breve pamphlet è un tributo alla straordinaria intelligenza di Sciascia, che si applica alla lettura delle missive scritte dalla prigionia.
L'intuizione di base è provare quello che non tentarono le persone che avevano la possibilità di salvare Moro, cioè mettersi dal suo punto di vista e comprendere cosa potevano significare le sue parole, senza affidarsi al pregiudizio che portò i più a disconoscere la "paternità morale" delle lettere.
Lettere che non potevano essere scritte da uno statista,  altra parola chiave perchè dal momento in cui fu usata (inopinatamente, secondo Sciascia, per il quale Moro non fu un grande statista) divenne come una condanna. Lettere che si prestavano anche a quella interpretazione che nessuno tentò: sto cercando di prendere tempo, sono qui, trovatemi. E poteva essere trovato, pensa e scrive l'autore, anche nella relazione di minoranza che predispose quale parlamentare radicale, ideata per la lettura del pubblico e posta in appendice al libro.
Parte da Pasolini, Sciascia, dall'articolo sulla scomparsa sulle lucciole che era colpa idonea a far processare il Palazzo; dal suo giudizio (non condiviso) che Moro fosse il meno implicato di tutti; dalla sua attenzione alle parole e al discorso di Moro, che si ritrovano in un testo a suo modo filologico. 
E poi cita il Pierre Menard, autore del Chischiotte, intuizione letteraria che pare rivivere nella sua cronaca dei fatti che, scritta come cronaca, senza nulla mutare, diventa letteratura.
Come quando disvela il paradosso del complottismo generato dall'idea che l'agguato, in quanto era sembrato prova di efficienza, non poteva essere opera di italiani.
Nell'analisi delle parole e della scrittura di Moro Sciascia trova soprattutto motivi di critica alla posizione della fermezza, alla nettezza con cui fu formulata. Posizione e nettezza peraltro, lontanissime dal suo profilo intellettuale ed umano.

Più si interagisce, meno si dialoga

Non uso facebook. Ho un profilo twitter al quale mi connetto saltuariamente, ovviamente sul pc.
E' un social network molto interessante. Per persone pubbliche o che riescono a diventarlo è un modo in cui riuscire a raggiungere moltissime persone con un breve messaggio, veicolando quindi idee.
Lo trovo molto utile proprio perchè ti mette in contatto con tantissime idee. 
Tuttavia il meccanismo dei retweet e delle risposte, essenziale per moltiplicare la circolazione tramite i follower dei follower, genera diverse conseguenze cui prestare attenzione.
In primo luogo si rischia di ricevere notizie e commenti prevalentemente da persone che la pensano come noi, generando la fallace impressione che su un argomento vi siano attenzione o consenso generalizzati.  
L'immediatezza delle risposte, poi, non consente una giusta ponderazione, nè la verifica della notizia che si sta commentando. Se uno twitta che Higuain sta violando la quarantena, sono tentato di dargli subito del grandissimo bastardo, senza attendere quella mezzora in cui si chiarisce che sta partendo, autorizzato, per andare a trovare la madre malata. Se il commento l'ho fatto, resta, e la mia figura da pirla, che quarantanni fa i pochi astanti avrebbero scordato in dieci minuti, rimane stampata nel byte in forma perpetua e planetaria. 
A qualcuno la vanità fa brutti scherzi: se dici una cosa che ritieni molto intelligente e divertente, perchè il tuo amico che sicuramente l'ha letta non ha messo un like? Certe persone anche note, da come rispondono ai commenti, passano le giornate a leggere i feedback ai loro like.
La cosa che mi ha più colpito, tuttavia, l'ho realizzata un paio di giorni fa. Il fatto di poter rispondere ad un uomo pubblico ti dà l'illusione di rivolgerti a lui. Immagini di scrivere a Renzi che il suo discorso è stato davvero bello, oppure a Scanzi che questa se la poteva risparmiare. Ti stai rivolgendo proprio a loro, ma le possibilità che ti leggano e che gli interessi il tuo pensiero sono praticamente inesistenti. La tua idea finisce tra diecimila altre, in una statistica, mentre magari uno che neanche conosci ti dà del deficiente. Per chi si scrive dunque? Interessa a qualcuno il nostro pensiero?
Nel mentre interagiamo con una persona davanti a migliaia di altre, non stiamo in realtà dialogando con nessuno, se non con la nostra vanità.


lunedì 4 maggio 2020

I senzapannella

Nel giorno del suo novantesimo compleanno, onorandolo come fosse ancora tra noi, moltissimi hanno sentito la necessità di ricordare Marco Pannella.
La straordinaria personalità del rapporto che avevano con lui tutti quelli che lo hanno conosciuto, e anche quelli che lo consideravano un amico anche con una frequentazione solo radiofonica (ed era un vero amico, di quelli che ti insegnano, ti indicano la via, ti correggono; ti aiutano a ricordarti di pensare) è spiccata nei mille ricordi, inevitabilmente aperti dalla professione scontata ma autentica: manca a me, manca a tutti.
Novanta personalità hanno firmato una lettera, pubblicata anche da Manifesto e Fatto quotidiano, per augurarti "Buon compleanno". Si può ascoltarla recitata sulla radio, ricca dei riferimenti ai molti con cui dialogò Marco.
Il TG5 gli ha dedicato un servizio, breve ma pieno di cuore (e bisogna ringraziare Clemente Mimum per ricordarlo sempre, anche con due begli articoli nei giorni scorsi). Guido Del Turco in due minuti ha saputo condensare quasi tutto, partendo dagli ultimi giorni nella mansarda, mostrandolo con Enzo Tortora, davanti a delle carceri, e soprattutto riportando il suo ultimo messaggio politico: "Non mollate, perchè storicamente abbiamo già vinto".
Chissà se anche questa volta aveva, contro ogni evidenza, ragione lui. 
Tra i commenti, si distinguono quelli animati di stima da quelli densi d'amore.
Tra i primi Rolling Stone, che lo celebrò in un bellissimo articolo con DJ-AX, Mattia Feltri che ripubblica il coccodrillo del 2016,   e Guido Vitiello che lo ricorda irripetibile extraterrestre che ora è atterrato su chissà quale altro pianeta, a calpestare nuove aiuole. Poi  Taradash lo definisce il leader immaginario, illudendosi e illudendoci che chi vorrà ricostruire questo Paese dovrà fare i conti con lui. Francesco Rutelli ricorda che è stato l'uomo del garantismo e della politica per temi.  
Tra i secondi un bel pezzo di Valter Vecellio, il biografo che da sciasciano apre con un giudizio del grande scrittore e (qui lo si può scrivere) dirigente radicale: “E’ il solo uomo politico italiano che costantemente dimostri di avere il senso del diritto, della legge e della giustizia”. 
Ed è difficile restare indifferenti alle parole di Sergio D'Elia: "Sei stato l’uomo che ha salvato la mia vita, mi ha fatto rinascere, da una prima vita segnata dalla violenza a una seconda dedicata alla nonviolenza, al diritto, ai diritti umani.
Mi hai aiutato a capire - continua D’Elia - che non è vero che i fini giustificano i mezzi, che è vero semmai il contrario: che i fini più nobili, le idee giuste possono essere pregiudicati e distrutti da mezzi sbagliati usati per conseguirli, e uccidere le proprie idee è il delitto peggiore che si possa commettere.
Mi hai insegnato la nonviolenza, questa forza sottile e invisibile, eppure dura e durevole come un filo d’acciaio, religiosa nel senso etimologico del termine, che tiene insieme, lega indissolubilmente le persone anche se si trovano su fronti opposti. La nonviolenza è la forza della coscienza, del dialogo, dell’amore, la forza che ha connotato la tua vita, Marco, mai ‘contro’ qualcosa o qualcuno, ma sempre ‘per’ e ‘con’. Quanti violenti hai disarmato con la nonviolenza!”  
Ieri in una maratona lunga oltre dieci ore, alla Pannella, che ho ascoltato in diretta e parte recuperata poi, lo hanno ricordato in tantissimi. (Ex) Militanti e dirigenti, politici, uomini di cultura e di spettacolo.
Impossibile sintetizzare i migliori interventi, anche se è facile commuoversi al ricordo della Parachini, o alle parole quasi tenere di Bertinotti, alla nostalgia di Sofri. Riflettere ascoltare il tributo di Andrea Orlando, di Martelli, di Macaluso, di Paolo Mieli. Sorridere ascoltando da Stefania Craxi la lettera che Marco scrisse al padre. Capire da D'Elia, Della Vedova e Loquenzi come l'incontro con Pannella cambiò loro la vita. Ascoltare le parole "pesate"di Saviano.   
Per quasi tutti dobbiamo fuggire dalla tentazioni di chiederci cosa direbbe ora, Marco. Ma lo facciamo inevitabilmente, appunto perchè manca, e non è solo la nostalgia dei tempi andati.
E' che da quattro anni siamo, inevitabilmente, i Senzapannella.
Politici, giornalisti, uomini di grande cultura. Alla fine le parole migliori le ha trovate un artista,Vasco
Le idee radicali di Marco Pannella, per combinazione,erano molto simili alle mie, ai temi delle mie canzoni: abbattere il pregiudizio, sospendere il giudizio, tolleranza, anticlericalismo; e, cosa da non poco, antiproibizionismo. Finalmente un approccio moderno alla vita sociale, con l' uomo e i suoi diritti al centro di tutto; davanti anche le logiche di partito, di sinistra, di destra o di centro. Avevo praticamente il mio alter ego politico. Anticonformista, contro l' ipocrisia, un portatore di coscienza decisamente rock. Un idealista nel tentativo di "sbigottismo" e di cambiamento della società, società italiana. Un uomo politico onesto, che al posto dei salotti sceglie sempre la provocazione e la piazza; e che inoltre, ricordiamoci bene, ha sacrificato tutto il suo patrimonio personale. Quanti altri lo faranno? W Marco Pannella.

Con un canestro di parole nuove, calpestare nuove aiuole

venerdì 1 maggio 2020

1 maggio. Festa del lavoro o funerale del lavoro?

C'è voluto al solito il Presidente Mattarella, con un messaggio al solito misurato e capace di parlare ai cittadini nel linguaggio delle istituzioni, della Costituzione, per ricordare l'importanza del lavoro come fondamento della Repubblica.

Il lavoro è stato motore di crescita sociale, economica, nei diritti, in questi settantaquattro anni di Repubblica.
Perché il lavoro è condizione di libertà, di dignità e di autonomia per le persone. Consente a ciascuno di costruire il proprio futuro e di rendere l’intera comunità più intensamente unita.

Sorrido al pensiero che due giorni fa, con parole certamente meno ispirate, esprimevo sconsolato analogo concetto.
A partire dal lavoro si deve ridisegnare il modo di essere di un Paese maturo e forte come l’Italia.
La fabbrica, i luoghi di lavoro, hanno orientato e plasmato i modi di vivere nei nostri borghi e nelle nostre città, e l’opera stessa delle istituzioni chiamate ad assicurare la realizzazione della solidarietà politica, economica e sociale prevista dalla Costituzione.
I ceti produttivi, imprenditori e lavoratori sono il motore della nostra società, la fonte della ricchezza comune cui molti, troppi altri non contribuiscono in eguale misura, cui poi dobbiamo la libertà di cui godiamo (godevamo?).
Aiutarli, invece di penalizzarli, dargli mascherine, non multe, consentire loro di ripartire per se stessi e per noi, questo dovrebbe essere l'unico pensiero fisso di un governo.
Se non per convinzione, per furbizia, per mantenere la vacca che mungiamo e ci fa vivere
Se non si è nemmeno in grado di dare, come dice il Presidente, indicazioni ragionevoli e chiare, quella di oggi è stata non la festa, ma il funerale del lavoro.
Da esponente di un mondo privilegiato, posto fisso, stipendio sicuro, che in questi giorni ha realizzato che in fondo in fondo il proprio lavoro non è così importante, almeno nel breve periodo, ci sto male, a pensare alle persone che soffrono perchè non possono lavorare, mentre a me il 23 hanno accreditato bel bella la mensilità.
Mi trovo a camminare incazzato nel giardino, distogliendomi dalla lettura dei resoconti di tanto disastro, purtroppo più rari degli alfieri di un pensiero unico, capace di stendere manifesti contro chi critica un governo così capace o inappuntabile, di bollare come "scellerato o delinquente" chi (quorum ego) pensa che siano possibili misure diverse da quelle prese.
Che tristezza, che amarezza.

mercoledì 29 aprile 2020

La salute è la cosa più importante. Proprio sicuri?

No.
Nulla è più importante della libertà.
"La mia libertà equivale alla mia vita".

giovedì 23 aprile 2020

L'antipatico

di Claudio Martelli
Ho approcciato con molto interesse questo breve saggio, a comporre una personalissima trilogia da lettore, con la monumentale biografia di Massimo Pini su Craxi e l'autobiografia di Martelli. 
E' indubbio che la materia mi appassiona non poco, tanto per il riguardare (una parte di) quel milieu laico - riformista che è fra i miei riferimenti politici, quanto per i molti dubbi che a mio avviso genera il finale della sua storia, quanto infine per la consapevolezza di non aver colto, nel momento in cui vivevo parte degli eventi, il loro vero significato.
A cavallo degli anni 90 ero un lettore (supergiù quindicenne) di Repubblica; sulla soglia della maggiore età ho vissuto con molti altri Tangentopoli come una speranza di rinnovamento, di un Paese  migliore che ben si confaceva con la verde età delle speranze, delle illusioni.
Solo dopo, aiutato dal senno del poi e della sempre maggiore frequentazione della radio radicale, ho compreso l'abisso in cui conduceva certo giustizialismo, e la ingenuità di certe speranze, di certi unilaterali affidamenti.
Il libro dichiaratamente non è una biografia. Un po' tributo personale, un po' manifesto politico, inevitabilmente tende all'indulgenza, che personalmente perdono per la stima che ho di entrambi.  
Nella prima parte Martelli individua per sommi capi i principali meriti che attribuisce al Craxi politico: il recupero delle tradizioni riformiste, la difesa dell'autonomia politica, il sostegno ad una rivisitata versione del socialismo liberale rossettiano, l'aver ricomposto una frattura tra il patriottismo ed il socialismo, ed infine la passione per la libertà che ha caratterizzato il suo impegno internazionale a favore di popoli e movimenti.
La seconda parte ripercorre le tappe della ascesa e della caduta di Craxi; ne ricorda oltre ai molti alcuni errori. Attribuisce infine la caduta al culmine di una lotta politica che vide convergere gli interessi del "quarto partito", il partito del potere e del denaro, con il regolamento di conti da parte di alcuni acerrimi avversari, con la nuova situazione internazionale che paradossalmente finì per dare nuova verginità agli sconfitti.
Martelli, che in tutto il libro non parla di sè nel del suo rapporto con Craxi, dà insomma una lettura integralmente politica alla vicenda, del tutto svalutando la portata decisiva della questione morale, e paradossalmente anche gli aspetti "garantisti", su cui molti altri hanno incentrato i ricordi.
Del resto "Poiché era tutto politico, per vocazione e per professione, una volta che si era assegnato una missione la perseguiva assumendosi la responsabilità degli atti e delle parole, senza temere né di macchiarsi di una colpa né di affrontare l’odio. La colpa e l’odio sono inseparabili compagni dell’uomo politico come lo sono l’amicizia e la lotta.
Non si può diventare capi senza fare dei torti e senza macchiarsi di una colpa. Si comincia pensando di far male solo ai nemici atavici e agli avversari di turno, eventualmente ai loro amici e alleati e, non di rado, succede che lo si faccia pure ai propri amici e alleati. Talvolta persino a se stessi.
Del resto, anche se un politico sceglie infallibilmente il male minore, ha pur sempre scelto un male, è intrato nel male e si è macchiato di una colpa. Dunque, con ciò si è guadagnato l’odio almeno di una parte. Più lungo sarà il tragitto, più si estenderà il novero dei meriti e dei successi, più si allungheranno anche l’elenco dei torti e la lista delle colpe e degli odi.
La politica è un’arte così tremendamente difficile e derisoria che mentre ti illudi di usarla per cambiare il mondo, non ti accorgi che ha già cambiato te."   
La rivendicazione del ruolo della politica è una costante: “La politica è sintesi di molti mestieri, una professione che non possono fare i dilettanti ma i professionisti di questo mestiere: i politici.” Sul punto Craxi rieccheggiava le parole di Croce: “L’unica vera onestà politica è la capacità politica, la capacità di realizzare gli scopi che ci si è assegnati. Nessun areopago di purissimi imbecilli potrà mai sostituirsi a una classe politica capace, espressa da una libera competizione democratica.”
Martelli precisa che non è possibile distinguere il politico dall'uomo: Craxi era un fighter, un combattente, un sincero democratico che, in tutta onestà e con tutta la serietà che il compito richiedeva, si assunse la responsabilità di difendere la democrazia dai suoi nemici. Ed era un politico educato alla dura scuola della realtà, perfettamente consapevole che la politica è la continuazione della guerra con altri mezzi, mezzi meno cruenti, anche se tutt’altro che pacifici. Così, del resto, era l’epoca in cui visse quasi tutta la sua vita, un’epoca affatto pacifica.
Nei "reduci" che recentemente hanno ricordato Craxi nel ventennale della morte è molto vivo il senso della comunità, il dolore per la sua dispersione. Infatti La storia di Craxi non è solo la storia di un leader politico e di un uomo di stato. È la storia di un’idea, di una tradizione politica che comincia assai prima ma che con lui si rinnova e si amplia, superando gli antichi confini, esplorando nuovi orizzonti.
Senza un recupero e un ripensamento del lascito di Craxi, quella storia rischia di esaurirsi nella condanna o nei travisamenti, nella diaspora o nell’oblio, e la storia del socialismo e quella italiana ne risulterebbero amputate e deformate.
Personalmente credo che al giorno di oggi siano temi che interessano poco e a pochi, in un Paese che già non brilla per l'onore che riserva alla memoria di sè.
Martelli prova a riepilogare, nell'epilogo:
Craxi era innanzitutto un democratico, un uomo della polis moderna, schierato per tradizione famigliare e per scelta personale dalla parte socialista, perché voleva lottare per la libertà, la giustizia e il progresso sociale in Italia e in tutto il mondo.
Per tutta la sua vita è stato un patriota – un socialista tricolore, cioè un nazionalista democratico – e un combattente per i diritti dei popoli e per i diritti dell’uomo e della donna.
Per tutta la sua vita politica ha contrastato la vecchia destra: dunque i reazionari, i bigotti, i nostalgici. Con ancor più decisione ha lottato contro la nuova destra, quella dalle buone maniere e dalle pessime abitudini tra cui, sovrana, quella di capitalizzare i profitti e socializzare le perdite, quella che, padrona del potere e del denaro, vorrebbe esserlo anche dello stato e della politica.
È stato il primo capo di governo socialista e, sollevandosi da uomo di parte a uomo di stato, ha guidato l’Italia a traguardi economici ineguagliati, conquistandole un prestigio internazionale altrettanto ineguagliato.
Voleva e ha perseguito una grande riforma della repubblica e delle sue istituzioni, ma ha mancato l’obiettivo per l’insuperabile e irresponsabile rifiuto di quasi tutte le altre forze politiche.
Nato e cresciuto nella repubblica dei partiti, troppo tardi ne ha descritto e condannato la degenerazione nel malaffare. Assumendosi con coraggio la sua parte di responsabilità in parlamento, si è esposto alla contestazione dei faziosi estremisti e alla persecuzione giudiziaria, che con lui si è accanita non solo per gli errori compiuti, ma anche per l’onestà di averli riconosciuti.
Vittima di una giustizia politica che con lui ha usato una durezza senza pari, ha trovato rifugio in un paese vicino, amico dell’Italia. Malato e stanco, dovendo affrontare un delicato intervento chirurgico gli è stato negato un salvacondotto per essere operato in Italia ed è morto per le conseguenze post-operatorie.
È stato il primo capo di governo socialista e, sollevandosi da uomo di parte a uomo di stato, ha guidato l’Italia a traguardi economici ineguagliati, conquistandole un prestigio internazionale altrettanto ineguagliato.
Voleva e ha perseguito una grande riforma della repubblica e delle sue istituzioni, ma ha mancato l’obiettivo per l’insuperabile e irresponsabile rifiuto di quasi tutte le altre forze politiche.
Nato e cresciuto nella repubblica dei partiti, troppo tardi ne ha descritto e condannato la degenerazione nel malaffare. Assumendosi con coraggio la sua parte di responsabilità in parlamento, si è esposto alla contestazione dei faziosi estremisti e alla persecuzione giudiziaria, che con lui si è accanita non solo per gli errori compiuti, ma anche per l’onestà di averli riconosciuti.
Vittima di una giustizia politica che con lui ha usato una durezza senza pari, ha trovato rifugio in un paese vicino, amico dell’Italia. Malato e stanco, dovendo affrontare un delicato intervento chirurgico gli è stato negato un salvacondotto per essere operato in Italia ed è morto per le conseguenze post-operatorie.
Come quella di Moro, anche la famiglia di Craxi ha rifiutato i funerali di stato offerti da un’ipocrita nomenklatura.
Riposa a Hammamet nel cimitero dei cristiani. La piccola tomba guarda il mare e l’Italia lontana. Sulla sua lapide sono incise le parole che tante volte ha ripetuto:
La mia libertà equivale alla mia vita.
Ogni anno, il 20 gennaio, migliaia di italiani si recano sulla sua tomba e depositano un fiore o un biglietto.

mercoledì 22 aprile 2020

Quando rispettare le regole sembra una colpa (ma non lo è)

Ti capita spesso.
Sono conoscenti, amici, anche parenti stretti.
Fanno quella cosa che non si può, ma ci serve o ci piace, ed in fondo che male c'è; te lo raccontano cercando la complicità che li scusa e li assolve.
Brutta situazione: sbracare diventando correo, e la prossima volta comportarsi nella stessa maniera, o irrigidirsi facendo la parte del moralista?
Per mia fortuna non ho mai avuto il timore di restare sulle mie posizioni anche se poco frequentate; e nessuno è mai riuscito a farmi sentire in colpa, mentre facevo semplicemente, senza giudicare gli altri, quel che sentivo giusto.