di Bruno Contrada con Letizia Leviti.
In questo libro intervista Bruno Contrada dà la sua versione sulla incredibile, nota vicenda giudiziaria che lo ha riguardato, e della quale mi sono sempre vivamente interessato, stupefatto che non vi possa essere certezza se una persona sia un eroe, fedele servitore della stato vittima del più grave degli errori giudiziari ovvero il più abbietto dei traditori, il peggiore dei criminali.
Del resto la sua vita si è svolta in gran parte in Sicilia, ove gli estremi delle cose spesso si toccano e si confondono.
I fatti che Contrada adduce a confutazione delle accuse mossegli, o meglio delle testimonianze di seconda mano riferite dai pentiti che l'hanno accusato di essere stato al soldo di Rosario Riccobono, sono tanti e tali che non lascerebbero dubbio alcuno, se non sul perchè svariati giudici le abbiano considerate attendibili. E tuttavia si tratta ovviamente della versione di una parte: cui mi accodo in forza della convinzione che gli argomenti esposti generano, ma forse ancor più per via del pregiudizio che ho sempre avuto su questa vicenda.
Restano inespresse un paio di questioni: la natura dei reali rapporti con Riccobono, visto che viene negato (per clausola di stile) che questi fosse un confidente. Ed il ruolo di De Gennaro, altrove (per esempio
qui) additato come il responsabile di quanto accaduto a Contrada.
Ampiamente descritti, invece, sono la fallacia di molte delle invenzioni giornalistiche, le contraddizioni di molte delle testimonianze dei "superpentiti" (tutte avente ad oggetto quanto riferito da defunti), oltre che i motivi personali di risentimento che diversi di loro avevano contro Contrada; e le benemerenze guadagnate, attestate da sfilze di testimoni a favore, tra cui moltissimi poliziotti, financo ministri e capi della polizia, il cui giudizio è stato considerato irrilevante a fronte dei "sentito dire" di delinquenti veri.
L'assenza di un movente appare un elemento che rende ancor più incomprensibile una decisione che forse è esemplare rispetto agli aspetti patologici cui ha potuto condurre l'utilizzo dei pentiti senza la dovuta attività di riscontro. E poco vale che l'ultima decisione della CEDU (in termini tecnici forse discutibile, a mio sommesso e poco documentato parere; ma sentenza che fa epoca, la "sentenza Contrada") abbia determinato, a pena scontata, la piena riabilitazione (per non essere il fatto, ancora, previsto come reato)
Quanto accaduto sarebbe sconcertante se non vi fosse ampia casistica di a cosa può condurre la condizione di irresponsabilità di cui godono i pubblici ministeri.
A latere della vicenda emergono osservazioni interessanti di Contrada.
Sulla zona grigia, da lui concettualizzata nel documento riportato in appendice.
Sul ruolo dei pentiti e sulla loro diversa attendibilità se parlano della propria cosca o d'altro (singolare il caso ricordato del pentito invitato a fare nomi eccellenti per non essere "pentito di serie B).
Soprattutto il giudizio sulla fantomatica "trattativa", vista in termini pragmatici, ma soprattutto comparata con la legislazione premiale, essa stessa "trattativa legalizzata".
Fra le molte parole che ho letto sull'argomento, quelle di Montanelli:
Chi indaga sulla malavita, in tutte le sue espressioni, deve penetrare nei suoi ambienti, dove non si trovano malleverie e protezioni se non a patto di offrirne. È vero che in questo giuoco è facile perdere il senso del limite no a diventare talvolta il complice, per farselo amico, del nemico: e non escludiamo che questo sia stato il caso di Contrada. Ciò di cui dubitiamo è che il purismo giuridico sia un metro ragionevole per valutare, senza che si commetta un’iniquità in nome della legge, gli uomini cui chiediamo di tuffarsi nel fango per farvi pesca di malavitosi: e i nostri dubbi crescono se il purismo giuridico è avallato non da prove inconfutabili o dalla parola di specchiati galantuomini, ma dalla parola d’altri malavitosi della peggiore specie che possono avere mille e una ragione per incolpare a torto.
E quelle di Ferrara:
Mentre Contrada languiva in carcere o continuava la sua solitaria battaglia il Giornalista Collettivo ha brindato alle sue fonti esclusive, ha diffuso la pestilenza della calunnia a piene mani, ha evitato la fatica di domandarsi non dico dove fossero le prove, che non ci sono mai state, ma anche solo gli indizi che un uomo dello stato fosse, come nelle telenovele televisive, un uomo della mafia. Le telenovele bastavano per costruire il contrafforte fictional di un processo bestiale, che solo così, bestialmente ma almeno in modo liberatorio, poteva finire: con la cassazione della sua premessa, il reato stesso. E poi... Nel frattempo i suoi inquisitori hanno vissuto anche loro sette vite agli onori delle cronache giudiziarie e politiche, si sono, come si dice, fatti un nome. Hanno tentato vite pubblicistiche, sviluppi forti di carriera, avventure politiche risibili ma minacciose, hanno impestato l’aria della democrazia liberale italiana del sapore acre del pregiudizio.
Il mio pregiudizio è più forte di prima, dottor Contrada.