sabato 20 giugno 2020

Vinci ancora, grande campione

La partecipazione collettiva e quasi universale alla lotta per la vita di Alex Zanardi è una manifestazione (per una volta) sincera di stima e ammirazione che si è meritata questa persona unica, per la quale la parola CAMPIONE, nella vita più che nello sport, è veramente adatta.
Sei l'uomo cui vorremmo assomigliare, Alex.

Vinci anche questa battaglia, dacci ancora un po' di speranza e la possibilità di imparare, ancora, dalla tua forza.

domenica 7 giugno 2020

I love my (best italian song I heard at) radio

Le radio si sono unite in un'iniziativa che ricorda i 45 anni dalla nascita delle radio libere.
I love my radio.
C'è un concorso nel quale bisogna scegliere la migliore canzone italiana. 
Una per anno, al massimo una per autore. 
Impossibile sottrarsi dal votarne 3, oltre che dal giochino "manca" (Dalla? De Andrè? Paoli?).
Sono vecchio, e resto tanto tra i 70 e gli 80. Alla fine, scartate con dispiacere "Sabato pomeriggio", "Gocce di memoria" e "Occidentali's karma", sicuro su "La donna cannone" e "Quando", mi sono trovato a scegliere la terza tra "Albachiara" e "Certe notti". E ho poi deciso per Liga.

NB la più bella per me è "Almeno tu nell'universo". 

venerdì 5 giugno 2020

Dire tutta la verità

Sempre più spesso mi trovo a citare Luca Ricolfi.
In effetti lo stimo molto e per questo ricerco e leggo le sue analisi sul sito della fondazione Hume.
Capita anche, però, che ritrovo da lui ben espresse idee che ho maturato nella mia ben più modesta mente.
In questo articolo pubblicato su Il Messaggero per esempio, dopo aver disvelato le aporie ideologiche che dominano certe scelte (tipo "riapriamo tutti assieme"), descrive il "sovracosto" della riapertura regionale.
Il presupposto è che abbiamo riaperto senza effettivamente essere certi che il virus sia scomparso, senza essere pronti a conviverci con sicurezza. 
A mio avviso è stata una scelta buona, che doveva essere fatta anche prima. 
E' mancata l'esplicitazione della scelta politica, prima ancora del fatto che ci sia stata una scelta politica: Quando ci sono due valori in ballo, è normale che sia la politica a decidere. E nessuno può dire qual è il “tasso di cambio” ragionevole fra un punto di Pil in meno e 1000 morti in più
Questa del "tasso di cambio" è una cosa che io sostengo da tempo, con pochi interlocutori fidati. Non che possa essere calcolato, ma che il cuore del problema insista nello stabilire che vi sia un numero di decessi non accettabile per salvare l'economia (e che quindi, sotto quel numero, diventi accettabile), mi è stato chiaro fin dall'inizio. 
Probabilmente non è cosa che riuscirebbe ad essere spiegata, da questa classe dirigente, a questo popolo. Nessuno potrebbe permettersi questo discorso: La rinuncia a renderci coscienti dei maggiori pericoli cui stiamo per andare incontro rende il costo della salvaguardia dell’economia ancora più alto di quel che sarebbe se le autorità parlassero chiaro, e osassero dirci la verità: l’epidemia non è sotto controllo, i pericoli sono ancora molto grandi, se riapriamo non è perché siamo in grado di farvi lavorare e divertire “in sicurezza”, ma perché abbiamo deciso che la priorità è salvare l’economia e restituirvi un po’ di normalità.

mercoledì 3 giugno 2020

Cima Avostanis

Sono due anni che non parlo delle "mie montagne".
Ma non le ho certo abbandonate.
Con la mente soprattutto, perchè ogni volta che vedo splendere il sole e volgo lo sguardo a Nord, al nostro arco alpino, sogno di essere lassù.
E' una cosa che mi manca sempre tantissimo.
Tra la fine del 2018 e l'anno passato ho fatto alcune uscite, tra cui significativo il da tempo agognato "Iof di Miezegnot", un passaggio al vecchio caro Cuarnan e un paio di gite al Rifugio Nordio - Deffar, al Pura e al rifugio Vault.
Anche ieri ho programmato una gita familiare, che inizialmente doveva puntare al capanno Brunner sopra Cave, ma poi è stata dirottata sul laghetto Avostanis.
Si prevedeva un certo afflusso alla Casera Pramosio, tuttavia il numero di macchine che vi abbiamo trovato è stato veramente sorprendente, abbiamo parcheggiato a diverse centinaia di metri.
Ci siamo quindi incamminati sul facile percorso verso il laghetto, lungo la strada comoda anche se a tratti un po ripida, comunque adatta anche ai meno allenati, per raggiungerlo in poco più di un'ora (abbiamo proceduto a ritmo decisamente lento).
Nel mentre pranzavo in riva al lago a quota 1940, ho sentito che la cima era a solo mezzora, ed ho deciso di staccarmi dalla compagnia per raggiungerla.
Praticamente correndo in circa venti minuto sono giunto al culmine della Cima Avostanis a 2193 metri, godendomi il bel panorama con vista sulla Creta di Timau e su tutto il versante austriaco.
Nel mentre salivo, pensavo che questa non è "la grande bellezza", è "la vera bellezza". 



martedì 19 maggio 2020

Più mai-inteso che malinteso

Ancora un anniversario, quattro anni dalla morte di Marco Pannella.
Sembrerà forse sproporzionato lo spazio che dedico a ricordarlo: ma mi permette di rammentare molte cose della persona che vorrei essere.

I ricordi quest'anno sono stati concentrati il giorno in cui avrebbe compiuto 90 anni, ma anche oggi ho letto le belle parole (le definirei autenticamente d'amore) di Sergio D'Elia:
Qual è il “segreto”? Come diceva Gandhi: incarnare il cambiamento che vuoi vedere nel mondo. Come faceva Marco: vivere nel modo e nel verso in cui vuoi vadano le cose. Io ho messo una vita a capirlo. Quando l’ho capito, è iniziata un’altra vita.

Qualche giorno fa mi è capitato di riascoltare, alla presentazione del suo "Sillabario dei malintesi", Francesco Merlo che leggeva il capitolo dedicato al pannellese, in un libro che si fonda sulle parole come chiave di interpretazione della realtà storica.
Anche come tributo alla sua penna, la migliore del giornalismo italiano probabilmente, lo riporto, permettendomi di evidenziare i passaggi chiave:
Anche Pannella non diceva parolacce, non ricorreva al turpiloquio. Usava un linguaggio violento che però smaterializzava la violenza, colpiva ma rendendo aereo il colpo, togliendogli ogni traccia di fisicità. La tensione morale era il suo codice.
Il linguaggio di Bossi e di Salvini, fatto di pallottole, musi di porco, lazzi omofobi e truculenze razziste, e quello di Grillo, fatto di "falliti», "zombie», "salma», "merda liquida»... sono sproloqui da bettola, da caserma o da avanspettacolo che magari disgustano, sicuramente hanno cambiato la lingua politica, qualche volta intimidiscono, ma non riescono mai a irritare, a colpire davvero, a ferire intellettualmente, perché mai le loro sgangheratezze sono solidali con la dimensione intellettuale della convivenza civile.
Al contrario, qualsiasi persona civile percepiva la sostanza intellettuale del ragionamento di Pannella, del suo codice, anche quando esagerava. Il degrado del rapporto tra l’informazione e il potere in Pannella era "la morte della libertà»; in Grillo è "siete finiti, siete lecca lecca, i vostri giornali chiuderanno; basta: i giornalisti non possono infestare Camera e Senato e muoversi a loro piacimento, ma vanno disciplinati in spazi appositi», e mentre la folla grillina li prende a spintoni lui sul palco li chiama "piranha» e li insolentisce. Pannella invece digiunava contro "il reato flagrante che lo Stato commette violando i diritti più elementari nelle carceri e il diritto alla normale durata dei processi». Per entrambi lo strapotere dei partiti era "regime». Ma Pannella denunciava questo regime - "il potere che offende, nega, uccide la stessa legalità che proclama e che ha il compito di servire» - in pannellese, che non era un linguaggio semplice perché "non c’è sulla terra una sola parola che lo sia». Diventava armoniosamente inarrestabile, percorso da sibili: "Quel Maroni è l’assassino degli immigrati che respinse in mare, glielo abbiamo detto e lui ha risposto che non gliene frega nulla». E poi fragorosi non-stop su argomenti come il sensus fidelium che un ironico sussurro trasformava in consensus fidelium. Il suo colloquiare diramava per rivoli inaspettati sino allo spiritualismo e all’energia: "Il non uccidere vale anche per la legittima difesa, perché se sei bravo devi ferire, invece che uccidere». Poi improvvisamente il lessico diventava quello immediato della libertà, più pericoloso di qualsiasi controprova e di qualsiasi violenza del potere: "Ho spiegato al presidente del Consiglio che il mio sciopero della fame non vuole costringerlo a fare le cose che non vorrebbe fare ma, al contrario, che voglio aiutarlo a fare le leggi che non riesce a fare».
A far saltare il linguaggio era la fortissima trama etica, la radicalizzazione di un disagio, la soluzione radicale a quel comune disagio, ma tutti sapevano che Pannella era un non violento che teorizzava la non violenza, che protestava imbavagliandosi o bevendo la propria orina in tv: "Senza giustizia preferisco morire». E mai insultava le persone, mai avrebbe proposto di processare uno per uno gli avversari politici e condannarli alla gogna dello sputo. Anzi, quando finirono sotto processo, li difese con la stessa passione con cui li aveva attaccati.
E infatti i primi a non sopportare Pannella erano quelli che meglio capivano la sostanza morale delle sue battaglie civili, ma vivevano come una ferita la radicalizzazione della coscienza. Ci si sente offesi dall’insulto di un familiare, dall’insolenza di un compagno che condivide la tua stessa grammatica etica, e anzi di quella grammatica è il professore, l’autorità, l’eroe combattente. Al sostanzialismo etico di Pannella non potevi contrapporre lo stile cerimonioso, la sobrietà del linguaggio, il tono basso della voce, i passi felpati della funzione e dunque "sradicalizzare» i radicali. Sarebbe stato un pessimo servizio agli italiani. Era infatti una purificazione e un arricchimento anche dell’italiano lasciar straripare il linguaggio di Pannella, fiume in piena e alluvione, piuttosto che cercare di canalizzarlo in rubinetti di ceramica.
"Sostengono», gli dissi qualche mese prima che morisse, "che sei diventato prolisso». "Torrenziale, ripetitivo, noioso... me lo dicevano i comunisti già nel 1970. E da anni dicono che sono morto». Ti trattano, da vivo, come fossi morto. "E sono pronti, da morto, a trattarmi da vivo». Pannella, che pure non era un italiano canterino, accennò una canzone: "Ma pecché, pecché ogne sera / penzo a Napule commera / penzo a Napule comm è. Questa canzone», mi confidò, "da un po’ di tempo mi torna nella mente, anche in sogno, come una febbre musicale». Malinconia? "È la durata, il passato che ci segue tutto intero, galoppa al nostro fianco: penso a com'era e penso a com’è». La durata di Bergson-Pannella significava che il grosso Mangia- fuoco logorroico è, nel flusso di coscienza, anche lo scheletrico Pinocchio imbavagliato, con il girocollo nero e il lunghissimo naso affilato... 
Significa che si può entrare e uscire in qualsiasi punto della vita di ciascuno e ritrovarlo sempre intero e sempre nuovo.
In pannellese le bretelle erano "come quelle del filosofo Siegfried Kracauer che legavano le idee più fantasiose alla terra più ferma». E le sue cravatte "antipartitocratiche, libertarie, nonviolente, antiproibizioniste, quando non stanno al mio collo dormono e fanno sogni allegri». La grammatica di Pannella era fatta di pugni sulle braccia, qualche pizzico, carezze sulla guancia. Con il Dalai Lama si toccarono per più di mezz’ora, "se fai qualcosa che non mi piace vengo a Roma e ti do un morso». Era la grammatica, Pannella.
Ma in quel 1986, che fu l’anno di Chernobyl e della diffusione della sua nube radioattiva, Pannella e Bordin decisero di sospendere i programmi di Radio Radicale e lasciare la parola agli ascoltatori, come rovesciare una città e portare la fogna sopra e i tetti sotto.
E gli italiani, invitati a registrare un messaggio di un minuto con le proprie opinioni sulla radio, produssero ottocento ore ininterrotte di bestemmie e insulti; un’altra nube radioattiva, di oscenità.
Se provaste a riascoltare oggi le registrazioni capireste subito che in quella maratona radiofonica di volgarità la parolaccia era libertà, faceva scandalo ma rassicurava la lingua, confermava la grammatica violandola, non pretendeva di farsi nuova cultura. Faceva parte, con gli errori, le storpiature, le forme dialettali, il procedere sincopato e mille altre "ricchezze» linguistiche, del sottosuolo italiano: "E giusto che questo tetro mondo a luci rosse», disse Pannella, "venga finalmente alla luce del sole. È una fotografia inquietante ma straordinariamente interessante dell’Italia. Ci sono tanti moralisti che borbottano, ma non c’è neanche un sociologo che si prenda la briga di studiarle quelle voci, e nemmeno un linguista che si metta ad analizzare la diversità delle parlate, le sfumature fonetiche, le inflessioni dialettali. Un enorme patrimonio di conoscenza, e loro lo sprecano così». Aveva ragione.

Con un canestro di parole nuove, calpestare nuove aiuole

sabato 16 maggio 2020

A ciascuno il suo

di Leonardo Sciascia
Sono in fase sciasciana, si è capito.
Giallo "politico", nel senso che a questo aggettivo attribuiva l'autore, considerandolo necessario attributo delle sue opere, in cui si trovano disseminate con dovizia/delizia le consuete citazioni letterarie (Manzoni, Voltaire, Giuseppe Antonio Borgese, Pirandello, Casanova, uno scrittore polacco che cita Camus). 
Il duplice omicidio iniziale diviene oggetto di curiosità intellettuale da parte di un professore di lettere, che inizia una sorta di indagine privata. Gli sarà fatale, dopo averne scoperto il movente nei traffici illeciti di un notabile, miscelati con la componente passionale.
E gli autori del crimine, ormai evidenti a tutti tranne che alla polizia, ne godono trionfali i frutti, nel silenzio appena disturbato dal chiacchericcio, mentre il povero professore giace in una solfatara abbandonata.
"Era un cretino", il giudizio su di lui con cui si chiude il libro 
Protagonista del romanzo è evidentemente la Sicilia, raccontata nei suoi peggiori pregiudizi e nelle peggiori consuetudini, descritti con amara ironia della prosa asciutta e perfetta di Sciascia.
Un terra abbandonata in cui lo stato è inutile simulacro in cui non crede nessuno (mercè i "secoli d'infamia che un popolo oppresso, un popolo sempre vinto, aveva fatto pesare sulla legge e su coloro che ne erano strumenti"), ma che i suoi stessi abitanti fanno di tutto per piegare al proprio interesse. Una terra in cui tutti sanno chi è il notabile "che corrompe, che intrallazza, che ruba", in cui "rimettere insieme la roba" è opera di carità, che "è fatta di tanti personaggi simpatici a cui bisognerebbe tagliare la testa".

La società parassita di massa

La società parassita di massa è l'involuzione che Luca Ricolfi teme della da lui descritta "società signorile di massa".
Mi spiego: nella società signorile il parassitismo di chi non lavora convive con un notevole benessere, che accomuna la minoranza dei produttori e la maggioranza dei non produttori. Nella società parassita di massa la maggioranza dei non lavoratori diventa schiacciante, la produzione (e l’export) sono affidati a un manipolo di imprese sopravvissute al lockdown e alle follie di stato, e il benessere diffuso scompare di colpo, come inghiottito dalla recessione e dai debiti. I nuovi parassiti non vivranno in una condizione signorile, ma in una condizione di dipendenza dalla mano pubblica, con un tenore di vita modesto, e un’attitudine a pretendere tutto dalla mano pubblica, con conseguente dilatazione della “mente servile”, per riprendere l’efficace definizione di Kenneth Minogue.
Speriamo non sia buon profeta.
A me, da quando è scoppiato questo casino, per la prima volta pesa non essere in quella minoranza dei produttori, con mille difetti come le altre categorie, ma che indiscutibilmente è il motore è la fonte del nostro benessere.


domenica 10 maggio 2020

C'è solo un Franco Baresi

Ha compiuto 60 anni, il capitano.
Ne aveva molti meno, in questa foto, la stessa che stava su uno dei miei quaderni, in terza elementare.
Allora era il capitano di una squadra povera e mediocre, due volte retrocessa e che due volte seguì in  B, in una società (quella di Farina) che non poteva nemmeno lontanamente sognare la grandezza che avrebbe vissuto con la nuova proprietà.
Per tutti i milanisti si creò così un legame unico, ben descritto dal coro a lui riservato, che titola questo post.
Quando l'avvento di Berlusconi cambiò il calcio italiano, fu il capitano grandissimo di quella squadra unica, in qualche classifica votata come il miglior club della storia del calcio; ma provate a chiedere ad un vero tifoso che abbia vissuto quei momenti, e tra campionissimi come Gullit, Maldini, Van Basten e Donadoni nessuno avrà dubbi nell'indicare il giocatore più amato, il capitano.
Tecnico, veloce, feroce marcatore, abile nell'impostazione, fenomenale nella scelta dell'intervento. Un difensore perfetto, completo nell'era che ha preceduto quella dei marcantoni che imperano nelle difese attuali. Capace di interpretare con ineguagliata classe il gioco a uomo e quello a zona, anche nella versione da "eretismo podistico", la sua bravura era tale da consentirgli di essere scelto, per la nazionale, anche fuori ruolo (a centrocampo, da Bearzot).
«Baresi II è dotato di uno stile unico, prepotente, imperioso, talora spietato. Si getta sul pallone come una belva: e se per un caso dannato non lo coglie, salvi il buon Dio chi ne è in possesso! Esce dopo un anticipo atteggiandosi a mosse di virile bellezza gladiatoria. Stacca bene, comanda meglio in regia: avanza in una sequenza di falcate non meno piacenti che energiche: avesse anche la legnata del gol, sarebbe il massimo mai visto sulla terra con il brasiliano Mauro, battitore libero del Santos e della nazionale brasiliana 1962.»
(Gianni Brera, la Repubblica, 3 gennaio 1992)
Brera poteva permettersi classifiche e tutto quanto voleva. E nelle molte, anche internazionali, che si trovano è tra i difensori secondo solo a Beckenbauer (ma contro il parere di Brera che lo preferisce). Per me è sterile discutere se fu più grande di altri fenomeni (Scirea, Cabrini, Maldini, Nesta, Cannavaro, per limitarsi agli italiani); credo però gli si debba riconoscere, ineguagliato, quel carisma che guidava i compagni e intimoriva gli avversari (e qualche guardalinee).
Ha rilasciato in occasione della ricorrenza due belle interviste in cui dichiara il suo amore per il Milan e dimostra i valori che lo hanno fatto grande, forse riassumibili nelle parole di MaldiniIl tuo modo di essere mi ha sempre impressionato e mi ha insegnato tanto: poche parole e tanti fatti.
Che bandiera.


giovedì 7 maggio 2020

Una storia semplice

di Leonardo Sciascia
Sì, semplice...
Romanzo breve ma di rara intensità, si presta ad una lettura come una semplice storia.
Un omicidio, le indagini, la scoperta del colpevole.
L'epilogo, che dà poi un senso ai molti richiami disseminati nel testo, capovolge l'interpretazione e  spiega a noi poveretti, come farebbe Isidro Parodi a Ginevro Montenegro (la pomposa dabbenaggine fatta persona), quel che era evidente ma non avevamo capito.   
Protagonista del libro non è il traffico, quell'altra piaga secolare della Sicilia, che Sciascia nemmeno nomina.
All'appello ci sono  il commissario, il procuratore, il questore, il prete, il colonnello dei carabinieri, il capostazione. Pochi altri li chiama per nome, forse perchè sono i veri uomini (direbbe Don Mariano). 
Man mano che si scoprono come preziose gemme alcune, quei pochi tra i riferimenti e le citazioni che è dato comprendere alla nostra povera intellettualità, si immaginano gli altri.
Quanti saranno?
Quante volte dovremo e vorremo rileggerlo per cercarli?

mercoledì 6 maggio 2020

L'Affaire Moro

Di Leonardo Sciascia
Nato come qualcosa di simile ad un instant book sul caso Moro, questo breve pamphlet è un tributo alla straordinaria intelligenza di Sciascia, che si applica alla lettura delle missive scritte dalla prigionia.
L'intuizione di base è provare quello che non tentarono le persone che avevano la possibilità di salvare Moro, cioè mettersi dal suo punto di vista e comprendere cosa potevano significare le sue parole, senza affidarsi al pregiudizio che portò i più a disconoscere la "paternità morale" delle lettere.
Lettere che non potevano essere scritte da uno statista,  altra parola chiave perchè dal momento in cui fu usata (inopinatamente, secondo Sciascia, per il quale Moro non fu un grande statista) divenne come una condanna. Lettere che si prestavano anche a quella interpretazione che nessuno tentò: sto cercando di prendere tempo, sono qui, trovatemi. E poteva essere trovato, pensa e scrive l'autore, anche nella relazione di minoranza che predispose quale parlamentare radicale, ideata per la lettura del pubblico e posta in appendice al libro.
Parte da Pasolini, Sciascia, dall'articolo sulla scomparsa sulle lucciole che era colpa idonea a far processare il Palazzo; dal suo giudizio (non condiviso) che Moro fosse il meno implicato di tutti; dalla sua attenzione alle parole e al discorso di Moro, che si ritrovano in un testo a suo modo filologico. 
E poi cita il Pierre Menard, autore del Chischiotte, intuizione letteraria che pare rivivere nella sua cronaca dei fatti che, scritta come cronaca, senza nulla mutare, diventa letteratura.
Come quando disvela il paradosso del complottismo generato dall'idea che l'agguato, in quanto era sembrato prova di efficienza, non poteva essere opera di italiani.
Nell'analisi delle parole e della scrittura di Moro Sciascia trova soprattutto motivi di critica alla posizione della fermezza, alla nettezza con cui fu formulata. Posizione e nettezza peraltro, lontanissime dal suo profilo intellettuale ed umano.