Nelle conversazioni con gli amici ricorrono sempre più spesso considerazioni negative sull'atteggiamento dei giovani verso il lavoro.
Niente di nuovo, i vecchi (cioè noi, adesso) hanno sempre lodato il bel tempo andato di quando le cose funzionavano, rispetto al futuro che vedevano nelle idee della generazione pronta a sostituirli.
Naturale (e ovviamente triste) che ora sia il nostro turno di querimonia.
Ora un campione non scientifico ma discretamente ampio di situazioni sembra descrivere una reale differenza nell'approccio ad un lavoro che per noi era considerato il naturale momento di esplicazione della personalità, da perseguirsi con un impegno tramite quale gli iniziali (e i successivi) sacrifici potevano consentire le naturali, moderate soddisfazioni.
Ora pare che le priorità siano altre. L'equilibrio lavoro tempo libero, le condizioni ed orari di lavoro, l'adeguatezza delle mansioni, la possibilità di rapido riconoscimento dei merito sono oggetto di immediate pretese fin dalla trattativa per l'assunzione, con il contorno di un'aneddotica che fa un po' rabbrividire noi (almeno in Friuli) adusi a lunga gavetta e atteggiamento da sotàn.
Perplessi osserviamo che l'arretramento delle competenze va di pari passo con l'innalzarsi delle pretese, che con scorno vediamo con un po' di affannosa incertezza assecondate, per assenza di alternative. Non c'è un popolo di aspiranti, pronti a fare le scarpe ai pelandroni, questo dobbiamo tenerci, e le aziende di preparano con corsi che aiutano i vecchi a comprendere le esigenze della generazione Z.
Del resto la colpa è nostra.
Abbiamo distrutto la capacità formativa della scuola nel mentre sminavamo il percorso di vita dei nostri ragazzi da ogni genere di difficoltà: dove pretendevamo che imparassero la (pretesa) bellezza del sacrificio?
Per fortuna, avendo smesso di fare figli, abbiamo anche tolto loro la concorrenza, al punto che le aziende se li contenderanno.
Al COVID viene attribuita la sua parte. Dopo la great resignation ora leggo del quiet quitting: le persone fanno quel che è contrattualmente richiesto, niente di più, il lavoro è uno strumento e non il fine della vita. Non sono solo i giovanissimi a pensarlo, tra l'altro, e mi chiedo: ma se avessero ragione loro?
Abbiamo già fatto abbastanza danni; l'unica cosa che veramente rimprovero alla generazione Z è la mancanza di determinazione nel dare un bel calcio nel sedere a noi boomers, nel prendersi in mano il mondo mostrandoci che abbiamo sbagliato tutto.
Forza, ragazzi!
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