di Gianni Marongiu
Nel penultimo (per cronologia del periodo interessato) capitolo della sua storia fiscale dell'Italia Marongiu affronta il fatidico ventennio, dedicando attenzione oltre che all'aspetto strettamente fiscale anche a quello della spesa pubblica.
Dopo una breve introduzione sulla presa del potere del 1922, viene analizzata la "restaurazione finanziaria" nel primo triennio con alle finanze Alberto De Stefani. La concezione "manchesteriana" si accompagna ad una marcata autonomia del ministro, che pagate alcune "cambiali politiche" ai "pdaroni del vapore, operò nel solco delle politiche dei suoi predecessori, di indirizzo dichiaratamente liberistico (ove necessario corretto con il necessario pragmatismo), nel segno del "disboscamento della fiscalità di guerra, del perseguimento del pareggio di bilancio. La una riforma fiscale da lui adottata sull'imposta personale viene descritta in relazione alla moderazione di alcune scelte, in particolare riferite all'accertamento.
La sostituzione di De Stefani con Volpi fu per Marongiu il frutto di un nuovo equilibrio politico tra le forze industriali ed un regime maggiormente disposto ad assecondarne le esigenze.
Nella seconda metà dei Venti è il neo-protezionismo il segno caratterizzante, ove le scelte economiche si allineano a decisioni eminentemente politiche (battaglia del grano, "quota novanta", l'imposta sui celibi con tutti i suoi squilibri.
La concezione autoritaria si riflette nell'introduzione dei profili penali in materia di evasione, con la singolarità di una normativa che ne affidava l'esecuzione all'apparato amministrativo, nonchè sul ruolo recessivo riservato alla finanza locale.
Nello stesso periodo il completamento dell'edificazione dello stato totalitario vede la sottomissione del sindacato, a tutto svantaggio delle classi meno abbienti che sopportano in termini di minor salario reale i maggiori sacrifici per l'edificazione del nuovo stato, mentre la gran pompa intorno al sistema corporativo non trova riscontro nella sua effettiva incidenza sulla realtà economica e sociale.
Negli anni della crisi mondiale, che seppure più lentamente che altrove fece sentire i suoi effetti sul bilancio pubblico, emerge nuovamente la volontà di non incidere sul versante fiscale, addossando ancora ai ceti popolari (riduzione di stipendio e salari) il maggior carico.
L'avventura etiopica, l'intervento in Spagna e la creazione dell'Impero volsero inevitabilmente al disavanzo, con spese eccezionali e gli effetti delle sanzioni a rendere drammatica (al netto della propaganda) una situazione economica, senza la necessaria decisione di porvi rimedio sul lato entrate, dove ambiziosi progetti di riforma anche sul piano amministrativo non trovarono concreta attuazione (l'anagrafe triburaria, il contingente di studio, la codificazione), mancando (toh!) la volontà reale di por rimedio alla diffusa evasione.
La formula che viene utilizzata per descrivere la prevalenza della decisione politica sulla variabile finanziaria è "bilanci di guerra senza adeguate misure fiscali", in una chiara contraddizione tra la politica asseritamente e programmaticamente imperialista e quanto necessario, in termini di risorse, per renderla possibile.
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