giovedì 30 marzo 2023

Mi chiamavano rombo di tuono

di Gigi Riva e Gigi Garanzini 

Non resisto alla tentazione di procurarmi questa ennesima autobiografia di un calciatore, nel caso in esame quella vera leggenda del calcio italiano che è Gigi Riva.

Garanzini (che ha dato il suo meglio con "Il minuto di silenzio") conclude una ideale trilogia dopo i libri sul Vecjo Bearzot e sul Paron Rocco, ancora una volta applicandosi ad un "hombre vertical", definizione che Riva reclama nel ricordo della descrizione che ne diede Gianni Mura.

Il passaggio alla prima persona elimina il registro ironico in cui Garanzini è maestro e che rendeva particolarmente gradevole il racconto delle leggendarie gesta del Paron; assunte le vesti del taciturno e riservato campione, prevale l'economia di parole e sentimenti, con poco o nessuno spazio all'autocelebrazione, nè per le gesta di fromboliere inimitabile (e ineguagliato), nè per la sua scelta d'amore per la patria d'adozione, quella Sardegna in cui si è riconosciuto e che ha amato come la famiglia che il destino gli aveva sottratto.

Per la chiusura finale, vincendo il pudore (in ciò lo immagino forzato da Garanzini), cita Brera che lo amò così tanto e che coniò per lui il leggendario soprannome: "Nel suo viso incavato erano infiniti ricordi di dolore. Nessun pericolo ha mai potuto arrestarlo. Ha sempre considerato possibili le acrobazie più temerarie, tanto più temibili e pericolose quanto più vicine all'arcigna durezza della terra... I sardi vedevano in lui il campione, l'eletto che doveva riscattarli di fronte a una storia matrigna . L'hanno benvoluto e adottato prima che lo assalisse la nostalgia. Divenuto in pochi anni uno dell'isola, si è sottratto quasi del tutto ai crudeli complessi di un'infanzia troppo a lungo umiliata nell'indigenza... Tentò di rinascere un'ennesima volta e il miracolo pareva già riuscito. poi l'ha stroncato il destino. "No me dejas verlo" implorava Garcia per Ignacio riverso nel suo sangue. Io vorrei solo che degli eroi autentici non si guastasse mai il ricordo. L'uomo Riva è un serio esempio per tutti. Il giocatore chiamato Rombo di Tuono è stato rapito in cielo, come tocca agli eroi"


martedì 28 marzo 2023

La Casa a Nord-Est

di Sergio Maldini


Che gran sorpresa, questo romanzo rimasto sullo scaffale venti anni.
Il nostro Friuli, e non quello delle grandi misconosciute bellezze, ma quello placido e silenzioso di una bassa che più ordinaria non si può, elevato ad una sorta di Arcadia, in cui è (era) ancora possibile trovare il senso di un'esistenza.
Un giornalista, intellettuale raffinato che sente il peso dell'incompiutezza personale, in una Roma che percepisce distante, che non gli ha consentito di realizzare i suoi sogni letterari nè di trovare persone con cui instaurare un sodalizio intellettuale ed umano, decide di tornare nella terra in cui fu liceale (stelliniano, come l'autore), e provare a costruirvi una casa che è al tempo stesso vuol essere la felicità mai trovata.     
Persone e luoghi che conosce divengono l'oggetto di un amore sincero per una terra che ancora riesce (riusciva) ad evocare valori e sensazioni di una civiltà rimasta profondamente umana, e che il protagonista sente di dover "consegnare" ad altri: "le sensazioni sopravvivevano nel tempo, perchè in ogni epoca erano più o meno le stesse". 
Maldini da Santa Marizza ci porta a Varmo, Bertiolo, Gonars, Codroipo e Nespoledo, descrive i canevon, gli spoler ed i fogolar. Ci fa conoscere principesse di stirpe secolare, figlie di mulinai, contadini e muratori, ingegneri e industriali della sedia. "Marco sbirciò i 'suoi' friulani... Gli uomini alti, dall'arti interrogativa, le donne robuste, il viso aperto alla lealtà (in amore o tutto o niente, senza i ritardi volgari della reticenza borghese), talvolta i polpacci simili a bottiglie gonfie (ma non erano forse così i corpi dell'arte classica?) una spontanea familiarità".
Il correre delle stagioni, il piacere della conversazione, le figure della storia, i riti dell'amicizia ed il trepidare per nuove passioni coinvolgono Marco in una vicenda in cui non c'è slancio affrettato, ma una calma lentezza, che lascia anche spazio all'irresolutezza finale



lunedì 20 marzo 2023

Opposti estremi

In una divertente intervista di Aldo Cazzullo (fenomenale il racconto dell'invito a pranzo a Giorgia Meloni, in cui le chiede se ha "Hai allergie e intolleranze, oltre a quelle che già conosciamo?"), Luca Medici trova il modo per dimostrare di essere una persona che ha idee non banali:

Nella sua ultima intervista, tre anni e mezzo fa al Corriere, lei si ribellò al politicamente corretto: «Qui non si può dire più nulla...».
«Oggi il problema è quello opposto: qui si può dire tutto; anche troppo. Si dà voce a chi non lo merita. Ognuno è libero di sparare le sue nullate, di ferire, di offendere, senza conseguenze. Il male del secolo è il narcisismo. E il nostro specchio di Narciso è il telefonino. Sto cominciando a pensare a un film, e il tema sarà questo: il narcisismo di massa».

 

sabato 18 marzo 2023

L'inganno

di Alessandro Barbano
Con un saggio di spessore intellettuale e civile Alessandro Barbano affronta un tema cruciale della nostra vita pubblica, l'amministrazione della giustizia, offrendo una visuale inconsueta su aspetti non altrettanto noti quanto i ricorrenti (si fa per dire) aspetti delle inchieste spettacolo e dell'irresponsabilità degli inquirenti a fronte dei numerosi errori giudiziari.
È un libro con molti fatti, di cui viene offerta una chiave interpretativa che si pone nel solco della lezione di Sciascia, ove individua nel protrarsi di un diritto fondato sull'emergenza un pericolo per la libertà.
L'oggetto principale dell'attenzione di Barbano sono le misure del codice antimafia, estese poi ai reati corruttivi. Barbano ne analizza l'origine storica e le caratteristiche strettamente tecniche (in specie i presupposti delle misure di prevenzione antimafia nella loro diversità da quelle che fondano l'accertamento dei reati e le misure di prevenzione "costituzionali"), per evidenziare la loro devianza dai principi costituzionali, ed il loro fondamento in uno stato di eccezione sul quale ritiene doveroso soffermare una attenta riflessione.
Secondo Barbano il tempo nel quale tale stato di eccezione poteva essere sussistente era necessariamente limitato e da tempo passato, ed oggi il protrarsi di questo "diritto dell'eccezione" non giustifica le limitazioni ai diritti e alle libertà costituzionali che provoca, e di cui narra la concretezza raccontando diverse storie di persone la cui esistenza è stata stravolta in circostanze di cui si stenta a credere.
Tanto più in un contesto in cui l'amministrazione delle aziende sequestrate, all'esatto opposto della vulgata corrente, vede una generale distruzione del loro valore con una grandissima preponderanza delle aziende in che vengono liquidate, ed in cui la burocrazia che ne è incaricata si caratterizza per un funzionamento tutt'altro che trasparente e decisamente costoso, del tutto distanti dai canoni che vengono ritenuti accettabili nell'agire amministrativo.
Insomma l'intero sistema si regge su quello che Barbano non esita a definire un inganno, che l'antimafia come è oggi definita debba essere ripensata senza avere il timore di essere accusati di essere corrivi con la mafia.  
Non mancano dei capitoli dedicati ad altre più note anomalie del funzionamento della macchina giudiziaria, dalle inchieste spettacolo del procuratore Gratteri all'ostacolo ostativo, di cui Barbano è non da oggi un fiero critico.
Il suo ancoraggio è ad un diritto penale liberale, e alla ferma convinzione che siano il rispetto delle regole, lo stato di diritto, ciò che fondano la vero forza dello stato rispetto alla violenza delle organizzazioni criminali, e che le consentono nel lungo periodo di prevalere restando fedele ai suoi principi.
Il pensiero corre inevitabilmente, per quanto Barbano ne rifugga per pudore, alla nota posizione di Sciascia di cui al famoso articolo sui "Professionisti dell'antimafia", nel solco di una definizione che (non mi ricordo dove) ho ascoltato qualche tempo fa: "il diritto è l'alternativa storica alla violenza".  
 

sabato 11 marzo 2023

La nazione cattolica

di Loris Zanatta

Sono da un po' alla ricerca di un testo di storia argentina, che mi permetta di approfondire quanto letti nel breve libro di Marcos Novaro e gli spunti del manuale di Zanatta sull'America Latina.
Questo testo rischiava di essere molto approfondito su un singolo argomento, il rapporto tra chiesa e potere, ed in effetti alcune parti molto dettagliate sulle singole e variegate posizioni all'interno del vivace mondo cattolico argentino mi hanno indotto a più di un salto in avanti, ai capitoli successivi.
La tesi del volume è il ruolo assunto, a partire dal "revival cattolico" degli anni 20 del secolo scorso, dal mito della nazione cattolica. Divenne un assioma condiviso e quasi indiscusso che la nazione fosse "una entità spirituale ancor prima che una comunità politica, e che la sua unità e identità stessero racchiuse nella cattolicità". Tale mito fu l'arma con cui venne abbattuto lo stato liberale, e di cui si appropriò il peronismo, che pretendeva di esserne l'erede secolare. Spazzando via il pluralismo venne fatto valere un principio di unanimità, un mito egemonico per il quale la cattolicità del popolo dava sostanza alla cattolicità della nazione, e tutti la invocavano per legittimarsi (come unico suo interprete). Mentre l'Argentina diventava sempre più eterogenea nelle condizioni materiali e spirituali, mentre come in tutto il mondo si diffondevano le contrapposte ideologie, con le sfaccettature in cui vennero laggiù declinate, quel mito comprimeva la pluralità dentro l'unanimità ideale che esigeva. Ma esso, invece di cementare il paese come pretendeva di fare, era il canale per l'esplodere delle contrapposte violenze di chi, immedesimando la cattolicità nella propria versione dell'essere cattolico, escludeva automaticamente le diverse versioni come antinazionali. Cattolica era la rivoluzione, per i rivoluzionari, che per i militari era sovversione proprio perchè anticattolica. 
Dopo aver dedicato il primo capitolo alla formazione di questo mito, alla sconfitta della via liberale alla modernità, molta attenzione viene dedicata nel secondo alle lacerazioni del mondo cattolico negli anni Sessanta, segnate dai contrasti ideologici che mescolandosi ai fermenti post-conciliari videro una stagione movimentista in cui spesso il confine della violenza politica venne superato finanche dai religiosi. Nel terzo capitolo si tratta della caotica fase del governo peronista dopo il ritorno di Peron, e nel quarto la buia fase del Proceso.
Zanatta offre una chiave interpretativa alla tragedia che vuole spiegare le ragioni di quel che accadde, senza necessariamente farlo in chiave moralista. Non "di chi è la colpa?", ma "come è potuto accadere?". I militari in effetti si sentivano crociati in difesa della cattolicità della nazione, e vedevano i nemici come soggetti privi di umanità,  individui sacrificabili, nella visione organicista al bene della comunità, come il regime l'intendeva. Questo perchè ponendo a fondamento dell'ordine politico non il patto sociale e le istituzioni dello stato di diritto ma la fedeltà alla cattolicità della nazione, "idee, interessi e attori sociali se la disputarono tra loro, ognuno certo di esserne il vero depositario e che gli altri la stessero tradendo. E senza mediazioni possibili: l'identità nazionale era una". La lotta in nome di Dio e nazione dei contendenti opposti ma entrambi proclamatisi paladini della cattolicità della nazione divenne una "furente guerra di religione", facendola rotolare verso la tragedia. 
Fu quando rimasero solo morti e rovine che ci si accorse che stato di diritto, democrazia e accettazione del pluralismo fossero una più saggia base su cui fondare la comunità politica.
La Chiesa di tutto ciò fu protagonista, ebbe tutti i ruoli e fu squassata nel profondo nella sua unità. Anche a Bergoglio vengono rimproverati silenzi, omissioni, implicita complicità, ponendosi da quel punto di vista moralista che Zanatta rigetta, proponendo al posto della visione manichea (comunque ultimo frutto avvelenato della violenza con cui i militari trassero le ultime conclusioni di un lungo percorso) la possibilità della comprensione.     

Verso Ovest

di Bruno Cartosio
Ecco un libro a lungo corteggiato, ma che al momento del dunque non ho finito.
Ero interessato alla storia di quello che abbiamo conosciuto nei vecchi film come "far west", e questo testo del professor Cartosio mi era sembrato il modo giusto di affrontarlo.  
Probabilmente l'oggetto del mio interesse, dimostra Cartosio, semplicemente non esiste, essendo piuttosto il risultato di una operazione di mitopoiesi che viene descritta, anche con riferimento alla reale situazione storica cui andò a sovrapporsi il mito.
Il punto di partenza viene individuato nella compresenza a Chicago, in occasione dell'EXPO 1893, dello spettacolo di Buffalo Bill e della conferenza nella quale Turner teorizzò la famosissima tesi della "chiusura della frontiera". 
Cartosio ha modo in primo luogo di mettere in dubbio i presupposti fattuali della tesi, e della relazione al censimento del 1890 che ne costituì lo spunto, descrivendo in particolare la pochezza degli insediamenti "statunitensi" esistenti nelle pretese terre da conquistare, nonchè l'assenza di una vera e propria frontiera, men che meno costituita da una linea continua, di cui si potesse dichiarare la chiusura.
Al tempo stesso evidenzia la forza ideologica di un discorso che chiuse la prima fase della storia americana, identificata nell'espansione da est a ovest, ma che contesta sotto diversi punti di vista. Infatti la tesi: non è un saggio storico che spiega e descrive fatti, ma di un tentativo di interpretazione di un complesso di fenomeni; ignora del tutto l'importanza delle precedenti e ancora presenti colonizzazioni spagnola e francese; presuppone l'esistenza di "terre libere" disponibili per l'occupazione, mentre si trattava di terre abitate dai nativi, la cui esistenza è del tutto trascurata; implica il continuo confronto tra "mondo civilizzato e "mondo selvaggio", il primo connotato anche razzialmente dalla superiorità wasp (sono del tutto ignorati neri e indiani), il secondo visto come una minaccia da reprimere.      
Si tratta evidentemente di una rappresentazione ideologica e mitica di cui vi erano del precedenti, tra cui viene citata "la Conquista del west" di Roosevelt, ma che ha le sue peculiarità nello spostare il tratto distintivo della storia americana all'Ovest, definitivamente dando maggiore importanza ai fatti americani rispetto alle origini europee, e che fu capace di rendersi egemone anche nell'Accademia per la sua provenienza da uno storico "paludato" e per la sua genericità sufficiente a renderla compatibile con ogni genere di discorso.
Date queste premesse Cartosio passa a descrivere gli esiti notevoli di uno studio veramente molto dettagliato e documentato, che però ci porta a seguire vicende biografiche di pittori, esploratori e fotografi, che in tutta onestà ho fatto fatica a seguire oltre un certo punto.

Storia di Tonle

di Mario Rigoni Stern


Tonle Bintarn è un giovane contadino-pastore che vive in Veneto, in una terra che è appena divenuta Italia nel 1866. E' un contrabbandiere, tra i molti per i quale appare difficile comprendere perchè debba esserci un confine con le terre dell'Impero austroungarico, abitato da gente come lui, che parla una lingua simile al dialetto tedesco delle sue terre. Per via di un incidente con un finanziere diventa un fuorilegge, costretto a vita semiclandestina che lo porta a trascorrere metà dell'anno all'estero, nelle varie terre dell'Impero, dove lavora come venditore di stampe, giardiniere e quello che capita, per poi fare ritorno, a svernare tra casa ed il bosco che la costeggia. Una vita da fuggiasco con sempre in testa l'idea del ritorno a casa, alla casa con il ciliego cresciuto sul tetto, macchia rossa simbolo di una vita che nasce e resiste nei posti più impensati, nella quale riesce anche a generare un piccolo stuolo di figli, parte dei quali prendono la via dell'emigrazione oltreoceano. Con la nascita del principe ereditario nel 1904 un indulto pone fine alla clandestinità, ma è più per l'età che non è più tempo di andare per il mondo a lavorare, Tonle conduce al pascolo il suo gregge di pecore, tra i boschi di qua e di là del confine. In un breve levar del tempo oltre alle pecore la zona comincia essere frequentata dai militari che predispongono le fortificazioni in preparazione della guerra, che infatti arriva improvvisa, inspiegabile ed ineluttabile come le vere tragedie. Tonle osserva senza comprendere altro che la necessità di restare fedele a se stesso, alla sua terra e alla civiltà cui appartiene, assieme a quei nemici che sente essere persone come lui. Non lascia il paese evacuato e poi distrutto, per restare con le sue pecore, guardiano e custode non solo dei luoghi ma anche di un mondo che finisce, cui è attaccato ancor più che alle persone care. La prigionia è il preludio all'ultimo viaggio, un ritorno avventuroso nel luogo dove ormai tutto è distrutto, e può trovare l'ultima pace addormentandosi sul fianco di un ulivo.  
A questa piccola grande epopea dà voce sincera la scrittura di Rigoni Stern, la cui attenzione alle cose, alle persone, agli elementi della natura fa venire in mente quanto altra mai la parola "autenticità".   

lunedì 6 marzo 2023

31 canzoni

Necessario contraltare di "31 songs", versione italiana. 

Stesse regole d'ingaggio, cambia solo una parola:

Non le canzoni più belle, ma le più significative (per me). Al massimo una per interprete, solo pezzi italiani, l'ordine è casuale.

1. Pezzi di vetro

Ogni tanto scopro una nuova (magari vecchissima, ma nuova per me) canzone del Principe, ogni volta stupendomi della sua incredibile bravura di comporre versi così belli, così capaci di coniugare eleganza stilistica e al tempo stesso di descrivere, essenziali ed autentici, lati dell'animo umano di cui percepivamo l'esistenza ma che lui riesce a raccontarci, sempre e per sempre. 

Può essere "Atlantide" o "Santa Lucia", piuttosto che i grandissimi classici che è superfluo nominare. Ho amato incredibilmente, per ovvio motivo, "Il signor Hood", ho fantasticato seguendo le evoluzioni oniriche de "Un guanto", sono stato Nino, e Pablo, il ferito che faceva l'amore con le infermiere; ho pianto per i ricordi che ogni volta solleva la sua versione di "Stelutis Alpinis".

Dovendo scegliere, allora "Pezzi di vetro", nella versione live presente in "Il bandito e il campione ", cd consumato al primo anno di università; il ricordo di come le sue note e le sue parole riempivano quel giovane cuore pieno di speranza è ancora foriero di tanta grata dolcezza.

Dal vivo l'ho sentito tre volte, non concede nulla allo spettacolo fine a se stesso ma offre prestazioni davvero principesche.

2. Ci sei sempre stata

Il mio parteggiare per Liga sembra avere a che fare con qualcosa di simile ad una (impossibile) amicizia, fedele a prescindere dai meriti artistici e fideistica nel difenderlo dall'accusa di fare canzoni sempre uguali.

Non è il migliore, ha un sound ripetitivo, canta di cose semplici e non si è messo a capo della rivoluzione: ma Luciano lo si ama, non lo si discute.

Mi regalarono ancora in vinile "Lambrusco coltelli rose & pop corn", e poco dopo venne "Buon compleanno Elvis". Oltre a "Certe notti" conteneva "Leggero" che ancora considero il pezzo ideale per il rientro notturno da una festa, un concerto, mentre "le senti le vene, piene di ciò che sei".

Ho poi scoperto le canzoni più vecchie, tra cui non posso tralasciare "Non è tempo per noi", di quando c'erano ancora gli inni generazionali, e seguita tutta una carriera piena di pezzi onesti e autentici, in cui ho trovato il racconto forse non di me, ma di molto del mondo che vedo attorno a me, i giorni di dolore, la voglia di urlare contro il cielo, l'amore che è l'unico modo di fregare la morte e i sogni che danno forma al mondo. Ho dato mandato (eseguibile a discrezione, dai) di suonare "Chi viene e chi va" al mio funerale, magari sostituibile da "Happy hour", oppure con raffinata ironia da "Il meglio deve ancora venire".

Tra le molte, ci ha regalato in un indimenticato 2010 "Ci sei sempre stata", che mi fece venire un bel colpo all'anima.

Tra il meglio che deve ancora venire ci sarà certamente qualche suo live, dopo quelli al Friuli e a Cividale. Mai dire mai.

3. Questione di sopravvivenza

Gino Paoli è un vero e grandissimo artista, capace come pochi altri di cambiare la musica leggera italiana con pezzi come "La gatta", "Sapore di sale" e soprattutto "Il cielo in una stanza", canzoni che avrebbero, ciascuna di esse, dato il senso ad una carriera. 

Io ho amato soprattutto il disco (anzi, la cassetta) "l'Ufficio delle cose perdute", che sottrassi a papà  per immagarmi in brani magnifici come quello che gli dà il titolo, "Uomini piccoli" e "Coppi", ed anche la giocosa "Questione di sopravvivenza", che suonarono anche al mio matrimonio.

4. Nei giardini che nessuno sa

Ho avuto la fortuna di assistere ad un concerto del grande Renato, alla stadio Friuli, in cui la già di per se impagabile performance canora era accompagnata dal balletto dei Momix e di Carla Fracci.  

Dal vivo la generosità artistica di questo grandissimo cantante raggiunge la sua massima espressione, sublimandosi nella rapporto speciale con il pubblico la condivisione di una sensibilità unica, è un'esperienza che spero di rivivere.

Tra i molti brani che ho poi imparato a conoscere ed amare ha un posto particolare questa canzone, che parla con profondità di sofferenza, di solitudine, di amore, di cura, facendoci capire che siamo noi gli inabili, che pur avendo a volte non diamo.  

5. Sally

Vasco Rossi, ho letto una volta, è un po' il fratello maggiore un po' sfigato, ma che ce l'ha fatta. Non si tratta di un raffinato intellettuale, eppure ha saputo accompagnare la vita di moltissime persone con canzoni che parlavano di loro, dei loro amici, dei loro fratelli, anche di chi non ha avuto nè ambiva ad una vita spericolata. 

E' anche un uomo che ha superato momenti difficili, e di cui ho moltisimo apprezzato la vicinanza che ha sempre portato a Marco Pannella, che anche ora ricorda sempre.  

L'ho visto live solo due volte, una volta perdendomi per lui lo spareggio salvezza a Bologna, spero l'occasione si ripresenti perchè vale veramente la pena di vedere l'amore del suo popolo per lui.

"Vita spericolata" è forse il pezzo più bello; "Albachiara" l'inno della mia generazione, anche se talvolta penso a mia figlia paragonandola alla protagonista. I brani molto riusciti sono moltissimi, impossibile ricordarli tutti, e probabilmente rendendo inspiegabile il mio schierarmi per Liga tra i due corni del dilemma.

Allora Sally, per quel verso che gli è uscito così, forse nemmeno lui sa come certa ispirazione lo raggiunge.

6. Il cielo è sempre più blu

Il talento cristallino di Rino Gaetano è riconosciuto solo in parte, per lo più per il merito di questa straordinaria canzone. Come molti l'ho scoperto una ventina di anni fa, molto apprezzando tanti altri dei suoi pezzi, pieni di quella vita movimentata che ho sempre pensato caratterizzasse quegli anni Settanta da me così amati.

7. Confusa e felice

I precedenti erano mostri sacri, al cui cospetto appare forse singolare porre Carmen Consoli. Eppure per lunghi anni ho molto ascoltato la discografia (almeno i primi 4 album) della cantantessa mia coetanea, raro esempio di rock al femminile, che ho anche ascoltato in un concerto per pochi intimi a Lignano. 

8. Il testamento di Tito 

Tra i mostri sacri giganteggia Fabrizio De Andre, che feci in tempo a vedere al Carnera nel tour che accompagnava "Le nuvole".

Nelle sue canzoni i testi sovrastano la musica, con perle ineguagliate come "Via del campo" oltre alle più famose "La guerra di Piero", "La canzone di Marinella", "Il Pescatore", e molte altre meno note come "Il gorilla" o "Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers".

Animo libertario e anarchico, capace di cogliere la genuinità della vita degli ultimi, dei dimenticati, andando nella sua direzione ostinata e contraria ci ha regalato anche questa rivisitazione dei dieci comandamenti che mi ha sempre affascinato.

9. La vita è adesso 

Apogeo della carriera di Claudio Baglioni, pezzo eponimo dell'album con il quale cercò di uscire dalla fase giovanile che pure è stata forse la migliore dal punto di vista creativo, l'ho sempre apprezzato molto. Non è il mio cantante preferito ma la classe è indiscutibile come la bellezza di molti brani. 

10. Genova per noi

Quando papà lo scoprì, lo mandava a palla sull'autoradio Becker nuova, immedesimandosi in uno dei "noi" che "stanno in fondo alla campagna, che hanno il sole in testa rare volte e il resto è pioggia che ci bagna".

Una perla in mezzo ad una raccolta, quella dei vecchi successi di Paolo Conte, ricca di perle mandate e a memoria, molto apprezzate diversamente dalle (ma forse più valide) sofisticate produzioni successive.

11. Canzone 

L'eccezionale talento di Dalla ha regalato più di un capolavoro che ho molto ascoltato, neanche si possono contare, tra i quali scelgo questa, bellissima ma certo non la migliore, perchè piaceva tanto alla mamma.

12. Non andare via

Un'estate da ragazzo, alla festa dell'Unità a Piombino, fui folgorato da una cantante che chitarra alla mano fece "Ne me quitte pas" di Jacques Brel. La sua cover proposta da Patty Pravo si giova, oltre che della traduzione di Paoli, della straordinaria classe della cantante veneziana. Non meno indimenticabile "Dimmi che non vuoi morire", all'altezza dei suoi pezzi migliori e più famosi. Performer eccezionale. 

 13. Luce (Tramonti a Nordest)

La ragazza del paese, una di noi Elisa, ma dotata di un talento spiccato, forse non da artista mondiale ma che è facile riconoscere in una produzione sempre di ottimo livello. Le prime opere in inglese non le ho seguite molto, questo brano che ha vinto Sanremo invece l'ho amato tanto, come diverse delle sue successive produzioni.

14. Cyrano

A Guccini mi sono avvicinato in maniera scostante. Ho conosciuto da ragazzo i suoi pezzi storici, soprattutto "Canzone per un'amica" e "Dio e morto", solo in seguito altri dei suoi brani più famosi, "L'Avvelenata", "Eskimo". Con "Cyrano" gli è riuscito un racconto veramente potente e toccante.

15. Ma se ghe pensu

Anche Bruno Lauzi l'ho ascoltato prevalentemente sulla macchina di papà. Conteneva anche, assieme a molti altri pezzi pregevoli, questa canzone in genovese che gli (e mi) piace molto, probabilmente per la sua capacità unica di trasmettere la "saudade" dell'emigrante.

16. Mi fido di te

Quando uscì "Gimme five", ero tra le schiere dei detrattori di Jovanotti. Bisogna riconoscere la sua capacità di compiere un percorso che lo ha portato a produrre più di un pezzo gradevole, magnificato da frotte di adoratrici. Questo è legato nella mia memoria al momento in cui scoprii di diventare padre   

17. La canzone del sole

Siamo stati tutti in gita scolastica, cantando al ritorno le canzoni di Battisti. La più bella è "I giardini di marzo", ma era più facile "Mare nero mare nero marenè".

18. Almeno tu nell'universo

Dovessi indicare una sola canzone, la più bella, probabilmente indicherei questa, nella versione di Mia, la cui voce è all'altezza della passione unica che trasmette assieme alla cosa che ci tiene vivi, il sogno di quella cosa impossibile.

19. Quello che le donne non dicono

Fiorella Mannoia è in prima fila nella giusta battaglia in difesa delle donne; il suo brano di gran lunga più famoso (ma gran merito anche al recente "che sia benedetta") parla di loro, del rapporto con gli uomini. E' scritta da un uomo, ed esemplifica magnificamente quella che Ida Magli ha descritto come la straordinaria luce che gli uomini hanno saputo dare alle donne pensandole e descrivendole. In questo è una canzone di una bellezza unica, credo per questo così universalmente amata 

Da quando fu scritta i tempi sono cambiati, ora c'è molta attenzione all'indecente persistenza della violenza sulle donne e anche ai messaggi che si possono/devono trasmettere: recentemente Mannoia ha deciso di cambiare il finale: "Ma non saremo stanche/Neanche quando ti diremo ancora un altro NO". 

20. Per me è importante

Bravissimo Zampaglione. Mai riuscito ad ascoltare un disco intero, ma i pezzi di punta erano fenomenali, questo su tutti.

21. Quando

Pino, Pino, quanto amore hai lasciato nella tua città, che hai cantato con la fantasia e la passione che vi rende unici, e che caratterizza anche questo brano delicato, dolce e capace di far sognare, dolere e sperare. 

22. Occidentali's karma

Brano folgorante, uno sconosciuto se ne esce con questo incredibilmente riuscito mix di trovate linguistiche e ritmo. Difficile da mandare a memoria, ma poi (questione di Nirvana) cantata a squarciagola.

23. Io che non vivo

Senza tempo la bellezza della melodia di Pino Donaggio, che viene da tempi temporalmente, musicalmente e socialmente lontanissimi, ma ammalia e commuove ancora.

24. Gocce di memoria

Capolavoro (forse non pienamente riconosciuto) di composizione e di interpretazione, colonna sonora di un film bellissimo, esempio di come certe volte solo la musica sia capace di dar corpo al dolore più grande, all'incapacità di sopportarlo, di descriverlo, se non offrendo il balsamo del ricordo. 

25. Perdere l'amore

Venne giù l'Ariston quando Massimo Ranieri ci andò con questo pezzo, adatto alla sua potenza e alla sua sensualità, capace di emozionare anche la più fredda delle persone 

26. Notti magiche

Era perfetto. 15 anni, mondiale di calcio in Italia, ed un epilogo già scritto, campioni del mondo. Notti magiche, brano senza pretese (ma ben musicato da Moroder), sconfessato dai suoi stessi interpreti, ma che alla mia generazione è rimasto dentro, perchè ci ricorda quella età e forse perchè abbiamo un po' imparato, con quei rigori, come va la vita.  

27. Zitti e buoni

Sono forti, i Maneskin. Un gruppo rock italiano che spopola in giro per il mondo. Non sono i Rolling Stones, ma siamo contenti

28. Sarà perchè ti amo

Ho già confessato che la mia commozione quando partono le note di questa canzone è un chiaro segno dell'invecchiamento. Mi immagino ottantenne, ad una festa di reduci, a intonarla tra le lacrime, pensando agli Ottanta che ci videro bambino. Apprezzabile anche in versione Curva Sud Milano.

29. Nel blu dipinto di blu

La più famosa canzone italiana nel mondo, l'orgoglio di essere italiani, forse nazionalpopolari ma più inclini ad amare la bellezza e a cantare che a sterminare popoli.

30.O surdato nnamorato

E vabbè, la canta la curva del Napoli, inno non ufficiale di un popolo. Poesia popolare autentica, vero sentimento, chi non si commuove o mente o ha un bidone di spazzatura al posto del cuore

31.  1950

Serenella poteva forse essere la mia nonna, anche se dubito aspettasse il nonno al loro caffè. Melodia d'antan, perfetta per provare un po' di nostalgia dell'idea che abbiamo di chi ci ha preceduti. 

sabato 4 marzo 2023

Occidenti e modernità. Vedere un mondo nuovo

 di Andrea Graziosi

Si dovrebbe sempre tendere ad aprire la mente, a cercare spiegazioni e letture di quel che accade diverse, o ad un livello più alto, rispetto alla visione che ci offre la nostra intellettualità. 
Andrea Graziosi illustra perchè il nostro errore di guardare sempre gli altri mondi con i nostri occhi (di antichi dominatori) si somma al venir meno del sostrato materiale nel quale si sono formate la nostra visione del mondo e le categorie concettuali con le quali lo osserviamo: "E' necessario rivedere le nostre idee, le nostre categorie, la nostra interpretazione del passato oltre che del presente. Perchè anche le categorie e le interpretazioni, come tutti gli oggetti storici, deperiscono e alla fine si inabissano, o cambiano talmente di significato da diventare creature nuove, malgrado portino il vecchio nome".
Il noi è quello che Graziosi definisce "Occidente maggiore", quella versione (uno degli "Occidenti") del mondo europeo sorto nel 1500 ed in fase calante dopo la WWI, che nacque dopo il 1945 dall'associazione tra gli Stati Uniti e l'Europa Occidentale. Un "impero informale e liberale" che ebbe il suo apogeo nei trentanni successivi al dopoguerra, entrando in crisi negli anni '70, avendo modo di illudersi della sua vittoria dopo la sconfitta dell'Occidente minore sovietico nel 1991, ed entrando definitivamente in crisi dopo il 2008 e le presidenze americane del disimpegno di Obama e Trump.
Oltre che dell'autoidentificazione con il mondo libero, questo Occidente si caratterizzava per  una fiducia in un miglioramento continuo delle condizioni di vita, legato ad una favorevole situazione economica il cui perdurare ha avuto il paradossale effetto di farne dimenticare la natura contingente. Il venir meno della base materiale che rendeva possibili tali aspettative, con i suoi molti effetti negativi, è la situazione che stiamo vivendo, e nelle sue cause, sfaccettature e conseguenze costituisce l'argomento su cui esercita  Graziosi, con notevole sforzo di sintesi unita ad ammirevole capacità multidisciplinare.
L'autore si esercita in primis sulle definizioni dei caratteri tanto del "Primo moderno", quanto del "Moderno maggiore" e del "Moderno minore", per poi individuare i motivi della crisi del secondo. 
Si tratta in primo luogo del declino demografico, combinato effetto dell'aumento della speranza di vita e della minore natalità, da cui deriva un rapido e vistoso invecchiamento della popolazione. Oltre che i termini numerici, Graziosi descrive la presa di coscienza e le varianti di questa tendenza, ma soprattutto ne evidenzia la ragione eminentemente psicologica che la rende caratteristica comune di tutte le società che raggiungono buoni livelli di benessere. Ne delinea poi le conseguenze in termini di psicologia collettiva (società più vecchie, conservatrici, ostili all'innovazione e all'apertura), economici (struttura dei consumi e costi del welfare), politici (effetti della delusione delle aspettative di miglioramento).
Altro elemento critico è il declino del mondo contadino, con l'esaurirsi di una riserva di risorse che consentiva un costante aumento della produttività.
Vi sono poi la crescente presa di coscienza dei problemi dello sviluppo, gli effetti della decolonizzazione e quindi la fine del dominio europeo sul mondo, e la migrazione del motore economico del mondo verso oriente.
Le conseguenze del declino economico e politico si riflettono soprattutto in termini di fine delle aspettative crescenti. Ne derivano risentimento verso le elite che non possono più mantenerle, diffidenza verso le riforme che sarebbero necessarie, ansia diffusa per il timore di mobilità sociale discendente, condizioni di svantaggio per le generazioni giovani.
Ad esse si aggiunge una maggiore complessità della stratificazione sociale, in cui ad un maggior ruolo del talento individuale si introducono differenziazioni (età, colore, cittadinanza) di sempre maggiore rilevanza, e che introducono problemi nuovi.
La crisi si manifesta, oltre che nel declino demografico, nella contrapposizione tra centri (di solito urbani, ovvero oltrenazionali) "luminosi" molto attivi ed attrattivi, ed una periferia declinante e depressa, nonchè nella crisi dei due modelli politici caratterizzanti il Moderno maggiore, il modello elite-masse e l'equivalenza tra democrazia e libertà. Quest'ultima non appare più elemento assiomatico, ove il rispetto di procedure "democratiche" per la scelta dei governanti non è sempre associato (si pensi alle democrature) a regimi effettivamente liberaldemocratici.
La crisi della liberaldemocrazia si compone di vari aspetti che Graziosi brevemente descrive: la rivoluzione delle aspettative descrescenti (in periodo di crescita continua governare significava distribuire la nuova ricchezza, eliminando privilegi e rendendo possibile una crescita dell'omogeneizzazione, ma anche la sostanziale tenuta del sistema rappresentativo); il rapporto tra governanti e governati, elite e popolo (ora ogni errore diventa visibile perchè le risorse sono scarse e sono sottratte ad altre misure necessarie; le scelte necessarie sul lungo periodo sono impopolari nel breve, danneggiando i rappresentati che si sentono traditi e si rivolgono a chi è pronto ad ammannire facili promesse impossibili da mantenere; le elite sono accusare di tradimento, in uno con innovazione e globalizzazione viste come rottura del patto sociale che prima funzionava); la formazione di un nuovo "bacino reazionario" (invecchiamento, sentimento di svalutazione dei maschi, avversione all'immigrazione e analfabetismo di ritorno comportano per molta parte della società un'ostilità verso il cambiamento identificato nella globalizzazione); la natura  complessa delle riforme ed il rapporto nei loro confronti (che oltre a disputare le poche risorse disponibili, tendono ad ampliare la sfera di intervento dello stato); la spinta ad una direzione tecnico amministrativa delle società, originata dalla loro crescente complessità (con svilimento delle tradizionali prerogative degli organi più strettamente politici); le nuove tendenze leaderiste; la nascita di nuove società plurali. C'è in sostanza, un grande interrogativo sul fatto che la liberaldemocrazia come l'abbiamo sempre pensata (quasi come forma politica "naturale" e destinata a durare per sempre) fosse possibile solo nelle condizioni economiche date e non più presenti, ed ora ci si trovi di fronte ad conflitto tra spinte demagogiche e tendenze elitarie.
Ad avviso di Graziosi guardiamo "e cerchiamo di affrontare un mondo nuovo con discorsi non solo invecchiati, e divenuti per questo inadatti e privi di forza, ma anche sostanzialmente falsi". Esamina quindi il nostro modo di porci di fronte ad alcune grandi questioni, nel mondo nuovo che è bene conoscere, dividendole tra quelle "progressiste" e quelle di "chiusura".
Nel primo campo un'ideologia soggettivista dell'azione, quella socialista, che aveva presupposti errate ma idee chiare, è stata sostituita da un generico "buonismo di sinistra", teso ad affermare principi generici collegati a "pulsioni benevolenti", da cui non emerge un chiaro progetto del tipo di società che si vuole e del modo di costruirla (ai tempi era il rimprovero che facevo al Veltronismo), peraltro con spirito paternalistico e talora sprezzante di cui si sente ferito dai cambiamenti del mondo moderno. Graziosi enumera una serie di sostituzioni concettuali che esemplificano questo passaggio: i popoli e non le classi; l'individuo e non il collettivo, i diritti collettivi di gruppi specifici e non l'eguaglianza di fronte alla legge; il merito al posto dell'eguaglianza; i limiti dello sviluppo anzichè lo sviluppo; l'ecologia e non la conquista della natura; il piccolo è bello e non i grandi progetti. 
Due punti sviluppati da Graziosi appaiono di particolare interesse. Il primo evidenzia gli effetti negativi di un discorso pubblico incentrato sui diritti. Il crescere delle possibilità in una fase di miglioramento continuo ha reso talune di tali possibilità oggetto non di legittime ambizioni, ma di diritti al tempo stesso giuridicizzati e divenuti parte del patto sociale; la cosa nei tempi buoni aveva i suoi svantaggi come la giuridicizzazione della politica (ahi ahi), ma teneva; in tempi di risorse calanti, apre una distinzione tra diritti politici civili, legati alla non interferenza, che continuano a poter essere garantiti, e diritti economico sociali, per i quali c'è un tema di sostenibilità (con una frattura importante, e molto in tema di immigrazione, tra i cittadini che ne godono e gli essere umani, non cittadini, che ne sono esclusi). Di fronte a questo le società divengono "spontaneamente conservatrici", mentre di nuovo le elite che non li garantiscono sono accusate di tradimento.
Il secondo aspetto è il discorso del merito, combinato con le apri opportunità, sul quale Graziosi formula critiche non banali, a tratti sorprendenti. Il presupposto di tale discorso sarebbe il mondo è naturalmente dotato di un meccanismo che, se depurato dai privilegi, è in grado di renderlo automaticamente giusto, narrazione che giudica sostanzialmente conservatrice. "L'idea che basterebbe potenziare quel meccanismo liberandolo grazie a riforme anche radicali degli intralci che ne frenano l'azione, per vivere in un mondo migliore, per quanto razionale, contiene inoltre un'illusione e un errore, entrambi fondamentali". L'illusione è che l'ideale mondo retto dal merito non porti ad una nuova stratificazione sociale, inevitabile frutto anche di una dimensione collettiva che è ineliminabile (privilegi ereditati, fortuna, caso). L'errore è postulare l'uguaglianza degli uomini: gli uomini sono diversi per natura e capacità, affidarsi ad un merito legato ad esse appare un ragionamento che giustifica l'affermazione di chi la natura, le genetica e quindi il caso ha voluto più forte. La giusta eliminazione dei privilegi non deve far dimenticare che l'ascesa dei talenti genera una nuova gerarchia, appunto fondata sui talenti, cui non può automaticamente attribuirsi la qualifica di giusta, pena considerare che vi siano i "giustamente dottori" a fronte dei "giustamente camerieri", con le inevitabili conseguenze psicologiche. La proposta di Graziosi è quindi di denominare tale discorso quale "talentocrazia" piuttosto che "meritocrazia", unitamente all'avvertenza sulla non automatica giustizia che esso genera.
Analoghe osservazioni critiche vengono riservati ad altri discorsi "progressisti": quello sulle pari opportunità basato su diritti collettivi dei gruppi, cui è da preferire un discorso repubblicano alla francese; quello dei piani (si pensi allo stesso PNNR), cui sono da preferire ragionamenti aperti sul futuro; quello apocalittico sulla scienza, che affronta problemi fronteggiabili solo con uso della ragione e sviluppo tecnologico.
Nella parte finale, dopo aver brevemente esaminato i "discorsi di chiusura" (grandezza perduta, idee no global; la tematica della sicurezza e quella dei ruoli di genere), Graziosi evidenzia come bisogna abbandonare le vecchie teorie su cosa fosse un "mondo giusto", conservando i buoni ideali che le avevano ispirate, con un pragmatismo che cerchi di conservare quanto di più possibile il benessere ed il modo di vivere che ci ha garantito il Moderno maggiore, testimoniato anche dalla forza attrattiva che ha sempre esercitato, sempre sorretti dal criterio della ragione.
Graziosi ammette di non poter fornire un nuovo discorso liberaldemocratico, nuove soluzioni, per anagrafe e incapacità.
Figuriamoci io.
Forse ci accomuna la speranza, che le nuove generazioni, cui pure talvolta riserviamo la sfiducia dei vecchi, sappiano vedere loro, con occhi nuovi, oltre al mondo nuovo nuove soluzioni che nemmeno siamo capaci di immaginare.

giovedì 2 marzo 2023

Un anno dopo

In una conversazione di straordinario interesse Andrea Graziosi, sollecitato da Giuseppe Laterza, ripercorre i principali passaggi già delineati nel suo libro.

Me li sono appuntati, per meglio ricordarli.

1) Quello che maggiormente rimane, un anno dopo l'invasione, sono gli errori di valutazione commessi da Putin, e la scelta degli Ucraini di stare dall'altra parte, tanto più notevole in quanto rafforzata da un anno di sofferenza.

2) Il "mondo russo". Appare al momento vincente la corrente da sempre presente nella cultura e politica russa che nega che la Russia sia Europa. L'euroasiatismo già presente nell'800, che trovò paradossali meriti alla rivoluzione del '17 capace di allontanare Mosca dall'Europa, nel secondo dopoguerra ha trovato nuova linfa. Inutile nascondersi che rompere con l'Europa non è un accidente ma una scelta compiuta dal gruppo dirigente attuale.

3) Le elite cosa ne pensano. Forse non sono contente, ma non possono che tacere. Quasi scomparsa l'alta elite sovietica incarnata da Gorbaciov, il cui umanesimo rese possibile la transizione pacifica dall'Unione sovietica, silenziata dai putiniani l'elite affaristica nata negli anni 90 dal ceto imprenditoriale che fu liberato nel nuovo regime.

4) Il progetto politico era attrarre nel "mondo russo" tutte le zone russofone. L'errore è considerare sempre la lingua come fattore identificativo della nazionalità: in molti caso (come per l'Italia) lo può essere, in molti altri (Africa subsahariana, America latina) no. Nel caso postsovietico il russo si è posto come lingua veicolare, snazionalizzata, che non funge da univoco elemento di attrazione verso Mosca: evidente la differenza tra Crimea e Donbass.

5) L'accelerazione di un anno fa non sembra collegata al desiderio di Putin di fronteggiare un fronte che contrasta la transizione ecologica per lui dannosa; sembra piuttosto il tentativo di approfittare di un momento di conclamata debolezza dell'Occidente, iniziato nel 2008 e proseguito con il disimpegno di Obama e Trump. 

6) La denazificazione è diventata rapidamente de-europeizzazione: si voleva l'Ucraina distolta dai progetti di adesione al mondo europeo. Paradossalmente l'invasione e il forte coinvolgimento americano ha fermato e forse per il momento invertito la divergenza tra Europa e Usa, complice la presenza di un presidente come Biden, ultimo spirito "europeo" della politica americana, formatosi ancora in anni di guerra fredda. 

7) Di fronte al mutato quadro, ora multipolare, la Nato diventa strumento obsoleto, al posto del quale sarebbe opportuno maturasse un nuovo strumento comprendente tutti quelli che condividono i valori occidentali.

8) E' falso che si sia fatto poco per attrarre nel campo europeo e occidentale la Russia. La politica di Clinton in particolare fu smaccatamente filorussa, in particolare sulla questione delle atomiche sottratte all'Ucraina e sul piano degli aiuti economici. Il punto è che l'economia determina le scelte sul lungo periodo, sul breve prevalgono altri fattori. In questo caso il volgersi della situazione nel campo degli euroasiatisti è stato  probabilmente determinato tra le due guerre dalle purghe staliniane che hanno eliminato le elite più inclini a volgersi verso l'Europa.

9) Il nazionalismo ucraino non si fonda su elementi etnonazionali, ma sul ricordo dell'Holodomor e dello sterminio dei nazionalisti ucraini deciso da Stalin. Pur essendo storicamente fenomeni da non attribuire a contrasti etnici (furono staliniani, non russi), tali eventi non possono che predeterminare ostilità verso un predominio moscovita. Inoltre l'emigrazione ucraina, divisasi tra Russia ed Europa, ha chiaramente fatto comprendere dove sia meglio orientarsi.


Risiko del giocatore della domenica

Cina e Stati Uniti che si equivalgono, più o meno, per forza economica e militare.

Russia ed Europa per irrilevanza, quando non diventano palla al piede delle altre due.

Non è che diventa decisiva l'India?

Non sarebbe male averla dalla nostra.