Un romanzo breve, ma sarei tentato di definirlo un'inchiesta elevata al rango di letteratura dalla qualità della scrittura.
Sciascia ne narra l'origine nella postfazione, che è anche una dedica ad Alessandro Manzoni, regalandoci il particolare della ricezione da parte di amici e lettori di molte segnalazioni di casi di ingiustizia: prova di come fosse già in vita un faro (un lume).
La vicenda che ne "I promessi sposi" è citata in poche nascoste righe (e la malcapitata protagonista è mirabilmente descritta con un climax che delinea la sua esistenza, "povera infelice sventurata") viene riscoperta con filologica attenzione da Sciascia, anche correggendo l'errore delle due Caterina, e raccontata in 70 pagine in cui alla vicenda "giudiziaria" fa da sfondo, costituendone l'occasiobe l'amara riflessione su come l'amministrazione della giustizia diventa produttrice di ingiustizia (di violenza, di morte) quando viene influenzata dalle logiche del potere:
"Terrificante è sempre stata l’amministrazione della giustizia, e dovunque. Specialmente quando fedi, credenze, superstizioni, ragion di Stato o ragion di fazione la dominano o vi si insinuano.”
Suppongo che Sciascia sarebbe lieto di conoscere che quanto questa frase esprime è tra le cose che maggiormente resta, ad un suo lettore, dalla lettura delle sue opere: purtroppo avendolo già visto e sperimentato in vicende vicine e lontane, ritrovandone quasi ogni giorno exemplum nella cronaca giudiziaria.
"È potuto accadere. E crediamo che accada", ci dice Sciascia, poco dopo aver descritto la possibilità che elementi di prova non utili o contraddittori con la tesi d'accusa siano stati espunti dal processo (ohibò, ma dove l'abbiamo sentita questa... ah già stamattina alla rassegna stampa...).
Accade anche che si parli di tortura, non solo in Iran ma anche in Italia o in Belgio, quando la custodia cautelare viene distolta dalle sue giustificazioni e usata per fare parlare gli indagati. Il riferimento nel libro è alle pagine di Verri; ma con la consapevolezza che queste cose erano conosciute anche prima "Ma la tortura non è un mezzo per iscoprire la verità, ma è un invito ad accusarsi reo ugualmente il reo che l'innocente; onde è un mezzo per confondere la verità, non mai per iscoprirla”: e questo i giudici lo sapevano anche allora, si sapeva anche da prima che Pietro Verri scrivesse le sue Osservazioni sulla tortura, si è saputo da sempre. Nella mente e nel cuore, in ogni tempo e in ogni luogo, ogni uomo che avesse mente e cuore l'ha saputo: e non pochi tentarono di comunicarlo, di avvertirne coloro che scarsa mente e poco cuore avevano"
Cuore e mente, espressione di una razionalità non meno rara che costante nella storia dell'uomo, anche prima di diventarne protagonista nella stagione tanto cara a Sciascia: "E poi, non vogliamo credere che in tutta Milano non ci fosse un solo giureconsulto sufficientemente folle da accorrere a quella difesa. Sufficientemente folle, diciamo, per dire umano, generoso, illuminato dall'idea del diritto; e partecipe di quella universale ragione che non nel secolo successivo sarà inventata (anche se in quel secolo conclamata e acclamata), ma perennemente è corsa, vena più o meno affiorante, anche nel tempo più distante e oscuro. Di pochi, d'accordo: ma viva"
Purtroppo altra costante e quella ragion di Stato di cui si comprende l'origine: "Si voleva dare un'immagine della giustizia terrificante per gli adepti, che si credeva ci fossero, o che comunque era utile credere che ci fossero, alla stregoneria; e soddisfacente, quasi una festa in cui non si era badato a spese, per il popolo. Il supplizio cui Caterina era destinata obbediva insomma alla ragion di governo, faceva parte del malgoverno nel dar l'apparenza che il governo fosse invece buono, vigile, provvido."
In una mirabile pagina il rapporto tra le antiche credenze e la Chiesa viene poi descritto nella sua "perversa e dolorosa circolarità": "Si era stabilita, e specialmente in quel secolo, una funesta circolarità: antiche fantasie e leggende, antiche meraviglie e paure che erano credenze del mondo popolare, per la Chiesa cattolica a un certo punto si configurarono come un pericolo, come elementi di una religione del male che appunto a quella cattolica - del bene - si opponesse. E quell'antico favoleggiare si configurò, fu configurato, come pericolo: per l'ovvia ed eterna ragione che ogni tirannia ha bisogno di crearsene uno, di indicarlo, di accusarlo di tutti quegli effetti che invece essa stessa produce di ingiustizia, di miseria, d'infelicità tra gli assoggettati. E certo quelle credenze avevano diffusione: ma a misura in cui ingiustizia, miseria e infelicità erano dal sistema dominante in maggiore quantità e con accelerazione prodotte. Come a dire: provata la religione del bene, che tanti mali ci apporta, proviamo se ci va meglio quella del male. Che può sembrare battuta banale o grossolana, ma è tutt'altro che priva di verità: a rendere quel che accadeva a livello di psicologia individuale, o di ristrette collettività. Caterina Medici, infatti, si rivolge al diavolo nei momenti di grande stanchezza e disperazione, quando non ne può più. Lo invoca a che la porti via, nel suo regno che irride a quell'altro cui pure lei crede ma di cui non trova un segno, una risposta, un barlume di grazia nella dolorosa sua vita. Colte nella tradizione popolare e nel farneticare di alcuni, queste credenze venivano da dotti religiosi accuratamente catalogate e descritte, passavano ai predicatori, ritornavano al popolo autenticate, certificate: e ancor più così si diffondevano. Una perversa e dolorosa circolarità".
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