Inauguro (a Dio piacendo) una stagione di rilettura dei grandi romanzi con uno tra i miei preferiti in assoluto.
A farmi accostare a quest'opera fu il professor Bellanti, che ci fece leggere il colloquio di Don Fabrizio con Chevalley, e poi ci raccontò, lui di Palma di Montechiaro, della sua frequentazione con Tomasi e della vita e dei vezzi della grande aristocrazia siciliana, di cui recava memoria nella lunga unghia all'anulare.
Giganteggia Don Fabrizio, di una stazza che è anche morale e intellettuale.
In un contorno di miseria morale, nella quale sono accomunati in eguale misura diversissimi personaggi come il re Borbone, l'uomo d'onore cognato di Don Pirrone, don Calogero Sedara e le zitelle Salina, don Fabrizio è l'unico in grado di comprendere e concettualizzare la fine del suo mondo: "Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra".
Al declino di un'epoca non sa, non vuole opporsi, legato "se non dai vincoli dell'affetto, da quelli della decenza" al vecchio regime, con l'ancora di salvataggio di pochi momenti di felicità tratti da soddisfazioni per lo più intellettuali (il, singolare davvero, amore per la matematica e l'astronomia) ovvero sensuali; tanto pochi da poter essere conteggiati, in mesi di vita effettiva, nel visionario calcolo effettuato in punto di morte.
Il Gattopardo è lui, ma non è partecipe del gattopardismo, l'attitudine (molto) italica e (moltissimo) siciliana), che Tomasi non ha certo inventato, ma ha reso immortale. E' Tancredi, infatti, sulle prime stupendolo (per l'intelligenza dimostrata), a pronunciare le famose parole: "Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi": lui uomo nuovo, al pari del suocero, capace di interpretare i tempi che cambiano seppellendo quel che nei vecchi c'era che li rendeva rispettabili, ammantati di una giustizia che pareva legata all'esistenza di un ordine immutabile.
Il livello di comprensione dei passaggi storici che ci viene offerto sfiora il sublime, come solo la letteratura sa fare, e si compendia, oltre che in una serie di dialoghi tra don Fabrizio e rispettivamente Tancredi, Don Pirrone ed il conte Pallavicino, nei due momenti del confronto con Chevalley e della tirata di Ciccio Tumeo sulla falsificazione dei risultati del plebiscito.
Accanto al canto della fine di un'epoca (il declino del prestigio del Principe inizia quando, nel ricevimento di bentrovato a Donnafugata, si dimostra insolitamente cordiale con i suoi ospiti) trova spazio la riflessione amara e lirica di Don Fabrizio sulla vita, insieme alle molteplici pennellate sul carattere locale, affidate qua e là a commenti ora ironici, ora caustici.
Chissà com'era, nella mente dell'autore, Don Fabrizio: nella nostra c'è sempre Burt Lancaster, che si libra nel valzer con una Cardinale bella da mozzare il fiato (del resto "le sua lenzuola devono avere il profumo del paradiso").
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