Le autobiografie dei campioni non sono un genere da me prediletto, ma per Marco Van Basten era necessaria un'eccezione.
Campione di classe purissima e di eleganza inarrivabile, la sua è una storia rimasta un po' a metà, interrotta incredibilmente da un infortunio che ne ha dimezzato la carriera.
Ciononostante il mio parere è che la sua grandezza come attaccante lo elevi ad un livello cui solo Ronaldo (quello originale) può accedere.
E' una grandezza che non gli viene riconosciuta, generalmente: nelle graduatorie dei più grandi, il suo nome spesso non figura.
Il libro è strutturato in parti (la giovinezza, il Milan, la caviglia, il dopo), con capitoli che non rispettano l'ordine cronologico, e spesso prendono spunto da un episodio, da una partita, da un gol, per raccontare qualche aspetto della persona.
Una persona indubbiamente complicata, forse irrisolta, quella che risulta da molte pagine che appaiono quasi un esercizio di autoanalisi (il rapporto con la madre, con il padre, con Cruyff).
Una persona che appare ammettere con sincerità la sua normalità e le sue debolezze di uomo, a partire dal titolo scelto, al racconto dei "problemi" finanziari e delle alterne (eufemismo) fortune come allenatore.
Di calcio si parla, certo. Direi anche. L'aspetto più interessante è l'opinione espressa sul calcio di Sacchi, a suo dire (ma non solo) eminentemente difensivo. Il racconto del contrasto con il mister, non certo nuovo, è tuttavia accompagnato dall'ammissione di aver ecceduto.
Marco van Basten, il migliore centravanti di sempre, il migliore della migliore squadra della storia.
Che eroe, per la mia gioventù.
Che finì la stessa sera della sua vita di calciatore, il 18 agosto del 1995: lui a San Siro a salutare i tifosi, io in quella tenda sulle pendici del Monte Cacciatore.
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