sabato 28 novembre 2020

Più che un calciatore

In due giorni passati ad ascoltare persone che ricordano il loro Maradona, i più fortunati il loro Diego, non ho sentito che parole di ammirazione, di gratitudine, di rispetto.

E' stato più di un calciatore.

Per i compagni ed i colleghi, un leader che pur essendo sideralmente distante per bravura non lo faceva pesare e mostrava di essere uno di loro.

Per i tifosi delle sue squadre è stato il campione del riscatto di chi non è abituato a vincere.

Per gli amanti dello sport era uno dei rarissimi in cui la classe purissima non basta a definire il migliore, e bisogna ricorrere alla categoria del genio. 

Per tutti, come Senna, come Alì, è stato quella "fonte di ispirazione" che ha ricordato molti anni fa Sorrentino all'Oscar.

Lalla lallalà...





































giovedì 26 novembre 2020

Ho visto Maradona

E' morto Maradona.
Mentre sto sbadigliando davanti ad una stanca riunione a distanza, mi mostrano un messaggio con questa frase senza senso.
Nonostante la notizia non giunga del tutto inaspettata, raramente ho avuto la sensazione di una mancanza che mi è parsa così impossibile; c'è sempre stato, Maradona, da quando ho memoria e lui era già il migliore al mondo. 

Il re del calcio, il campione che ha interpretato al massimo livello questo fantastico sport mostrando inimmaginate acrobazie, ora non c'è più.
Il funambolo geniale che inventava traiettorie impossibili era anche un uomo fragile, incline ad autoassolversi dagli altri errori che gli sono costati infinite cadute, e si era già giocato più d'una vita.
Qualcuno distingue il fenomenale calciatore dall'uomo, sottendendo o declinando un giudizio negativo sul secondo. Non cercando nel campione necessariamente un esempio, registro che da tutti i suoi compagni e avversari mai si è alzata una voce negativa, tutti a volergli bene; e allora di quei giudizi sinceramente dubito.

Come tifoso per me era un avversario. Era il migliore, ci segnava e ci faceva rosicare. C'ero quando a  Udine fece le prove del gol di mano (Zico se la prese moltissimo, fu la sua ultima partita con noi se non erro). Un'altra volta che in cinque minuti recuperò un 2-0 ero tra quelli che schiumavano di rabbia vedendolo esultare, e poi allargare le braccia in segno quasi di scusa.
Contro il Milan impegnò dei duelli d'altri tempi, lui la genialità e l'individualismo contro l'organizzazione della macchina da guerra sacchiana. 
Quella notte del 90 a Napoli, poi ci tolse il sogno di un mondiale che era nostro.

Del perchè il calcio sia lo sport più amato è stato l'evidente emblema, lui piccolo e brutto ma indiscutibilmente il più forte. 

Gianni Brera (il Maradona del giornalismo sportivo) trovò per lui alcune tra le sue parole più belle: 
Maradona è la bestia iperbolica, nel senso infernale, anzi mitologico di Cerbero: se fai tanto di rispettarlo secondo lealtà sportiva, lui ti pianta le zanne nel coppino e ti stacca la testa facendola cadere al suolo come un frutto dal picciolo ormai fradicio. E' capace di invenzioni che forse la misura proibiva a Pelè, morfologicamente irregolare nei soli piedi piatti, peraltro funzionali nella bisogna pedatoria. Maradona è uno sgorbio divino, magico, perverso: un jongleur di puri calli che fiammeggiano feroce poesia e stupore (è dei poeti il fin la meraviglia). Talora uno dei suoi piedi serve fulmineamente l' altro per una sorta di paradossale ispirazione atta a sorprendere: ma quando vuole, questo leggendario scorfano batte il lancio lungo che arriva, illumina, ispira: capisci allora che i ghiribizzi in loco erano puro divertissement: esibizione per i semplici: se il momento tecnico-tattico lo esige, in quelle tozze gambe animate dal diavolo entra solenne il prof. Euclide. E il calcio si eleva di tre spanne agli occhi di coloro che, sapendolo vedere, lo prediligono su tutti i giochi della terra.

Ma sì, forse sei stato un sogno: ho visto Maradona, innamorato son.



Altro articolo di Brera, tanto per duplicare i motivi di nostalgia:






lunedì 10 agosto 2020

Capanno Brunner

 Scelgo questa meta per un'escursione facile con amici.

Trovata con un po' di fatica la partenza del sentiero, poche centinaia di metri sopra il lago del Predil, ascendiamo costeggiando il limpidissimo Rio Bianco; in un'oretta di percorso tutto nel bosco arriviamo al ricovero, che usiamo come appoggio per un pic-nic.

Al ritorno i più coraggiosi provano il piacere di rinfrescarsi i piedi nel Rio, prima di una sosta nella bellissima cornice del lago.

Facile facile.




Lago Volaia

 Ascensione del 5 luglio.

Più volte ho definito questo laghetto "il posto più bello del Friuli", certamente è il mio posto, in cui ho chiesto (ed ero serio) di portare le mie ceneri.

All'arrivo al Tolazzi la fila delle macchine parcheggiate è sterminata, del resto di tanta bellezza non su può pretendere l'esclusiva.

Da un po' non facevo la salita, che impiega un paio d'ore, con l'ultimo tratto appena un po' impegnativo per un po' di pendenza.

Il rifugio Lambertenghi - Romanin è chiuso per restauro, peccato. Mangiamo i panini a fianco del lago, un breve pisolo d'ordinanza e poi devo cedere all'insistenza dei ragazzi per rientrare. 

Non capite cosa vi perdete.


 

venerdì 7 agosto 2020

Coppi e Bartali

 di Daniele Marchesini

Il motivo per cui questo breve libro mi ha un po' deluso si collega paradossalmente al motivo per cui l'ho scelto.

E' un testo di uno storico, e quindi si parla del contesto in cui si formò la rivalità tra i due campioni, del suo significato politico e sociale, del ruolo nella rinascita del Paese nel dopoguerra.

Così la bicicletta metafora della rinascita; le vittorie al Tour momento in cui si risollevava l'orgoglio nazionale; i due campioni attratti a simbolo dei due mondi cattolico e laico.

Tuttavia la totale assenza dei riferimenti alle imprese sportive, e forse il confronto (inevitabilmente perdente) con "Coppi e il diavolo" di Brera mi hanno fatto arrivare alla fine con la sensazione che mancasse qualcosa.



Risorgimento e capitalismo

 di Rosario Romeo

Preso dall'entusiasmo estivo ho affrontato questo classicissimo della storiografia italiana.

Il primo saggio, in cui critica-rassegna la storiografia marxista che si accodò all'interpretazione gramsciana del Risorgimento come rivoluzione sociale mancata, appare letto oggi veramente un affare per specialisti; ripensare al momento in cui fu scritto dà tuttavia una diversa considerazione dello spessore di chi concepì.

Nel secondo saggio si analizza, numeri alla mano, uno dei presupposti della interpretazione contestata; ponendosi con chiara strumentazione marxiana il problema dell'accumulazione del capitale necessaria alla pretesa rivoluzione mancata. Romeo ritiene che la conservazione delle grandi proprietà terriere, insieme alle misure protezioniste e fiscali che gravarono soprattutto sui ceti contadini, abbiano permesso l’accumulazione dei capitali necessari all’industrializzazione e alla modernizzazione del paese 

Ninfa dormiente

 di Ilaria Tuti

Non leggerei mai un libro di questo genere se non fossi guidato dal pregiudizio favorevole per Ilaria Tuti, non scevro da bieco "nazionalismo gemonese".

Lettura sempre avvincente, la Tuti scrive bene e con evidente preparazione ed ha azzeccato con Teresa Battaglia un personaggio che alla fine del libro comincia subito a mancarti. 

Non amo troppo (o per niente) i riferimenti esoterici, e quindi il finale non è tra i miei preferiti; forse in alcune descrizioni traspare lo sforzo dell'autrice di dimostrare quanto è brava.

Serbi, croati, sloveni

 di Joze Pirjevec

Complice lo scaffale di Lignano mi sono appropriato di questo breve libro che avevo regalato a mio padre, all'epoca desideroso di conoscere un po' meglio la storia dei nostri vicini.

Anche per recuperare l'interrotta lettura de "Le guerre Jugoslave", dello stesso autore, che non so se riprenderò (troppo di dettaglio la descrizione degli eventi).

In questo testo Pirjevec tratta in tre sezioni la storia di tre dei tre popoli che composero la Jugoslavia, evidenziando il formarsi delle identità nazionali, che nelle secolari vicende di frammentazione politica è avvenuta soprattutto per contrapposizione con quella dei vicini.

Utile lettura, come compendio. Tra i due libri non ho però trovato il livello di approfondimento che cercavo sul periodo che mi interessa, che è il Novecento. 

Il censimento dei radical chic

 di Giacomo Papi

Ho preso questo libretto per onorare l'annuale tradizione di un acquisto alla "Libreria Pineta".
Ne ho ricavato una lettura divertente e capace di lasciare quel po' di amaro in bocca che ti procurano certe satire della realtà.
Un professore viene ucciso bastonate perchè in TV ha usato parole troppo difficili, e pertanto si è dimostrato uno di quei "nemici del popolo" che sembrano essere diventati gli intellettuali.
Tra i protagonisti del romanzo un ministro dell'Interno di chiara ispirazione, che aizza i peggiori istinti, trae occasione dall'omicidio per promuovere un censimento dei "radical chic", ma finisce a sua volta alla berlina perchè di nascosto guardava film d'essay.  
Alcuni riferimenti nemmeno troppo velati alla storia del Novecento rendono sinistri i sorrisi che spesso strappa la scrittura dell'autore.
Un po' in pamphlet ed in poche pagine quel che Nichols  ci ha spiegato ne "La conoscenza e i suoi nemici".

M. Il figlio del secolo

 di Antonio Scurati

Ecco un libro che di mio probabilmente non avrei comprato, ma per fortuna mi è stato regalato.

L'intuizione folgorante dell'autore è che l'ascesa al potere di Mussolini, nel periodo 1919-1925, ha avuto tratti letterari, romanzeschi (e forse anche drammatici).

Potendo attingere ad una quantità sterminata di documentazione, che padroneggia peraltro in maniera ammirevole, l'autore parte da documenti, discorsi, lettere, rapporti di pubblica sicurezza, per costruire episodi, e da essi una trama una in cui dei fatti narrati diviene fondamentale l'aspetto soggettivo di chi ne fu protagonista. Costruendo una serie di personaggi il per cui percorso dà vita ad un romanzo potente.

Si sa già come va a finire, è più semplice indugiare a riflettere su cosa pensarono veramente Margherita Sarfatti, D'annunzio, Giacomo Matteotti.  

Personalmente ho ritrovato echi di molte letture su Mussolini, tra cui mi appare dominante quella di De Felice; ancora voglia di rileggere.

Todo Modo

 di Leonardo Sciascia

Temo sia venuto il momento di ammettere che non sono all'altezza di essere un lettore di Leonardo Sciascia.

Non basta la sensazione che (mi povr'om) sfuggano i più, tra i colti riferimenti artistici, letterari e filosofici che l'autore semina nel plot giallo: stavolta mi trovo anche smarrito nella conclusione.

 Il piacere che dà la lettura di una prosa semplice, leggera ma accuratissima si accompagna ad un impulso immediato: quello di rileggerlo

sabato 20 giugno 2020

Vinci ancora, grande campione

La partecipazione collettiva e quasi universale alla lotta per la vita di Alex Zanardi è una manifestazione (per una volta) sincera di stima e ammirazione che si è meritata questa persona unica, per la quale la parola CAMPIONE, nella vita più che nello sport, è veramente adatta.
Sei l'uomo cui vorremmo assomigliare, Alex.

Vinci anche questa battaglia, dacci ancora un po' di speranza e la possibilità di imparare, ancora, dalla tua forza.

domenica 7 giugno 2020

I love my (best italian song I heard at) radio

Le radio si sono unite in un'iniziativa che ricorda i 45 anni dalla nascita delle radio libere.
I love my radio.
C'è un concorso nel quale bisogna scegliere la migliore canzone italiana. 
Una per anno, al massimo una per autore. 
Impossibile sottrarsi dal votarne 3, oltre che dal giochino "manca" (Dalla? De Andrè? Paoli?).
Sono vecchio, e resto tanto tra i 70 e gli 80. Alla fine, scartate con dispiacere "Sabato pomeriggio", "Gocce di memoria" e "Occidentali's karma", sicuro su "La donna cannone" e "Quando", mi sono trovato a scegliere la terza tra "Albachiara" e "Certe notti". E ho poi deciso per Liga.

NB la più bella per me è "Almeno tu nell'universo". 

venerdì 5 giugno 2020

Dire tutta la verità

Sempre più spesso mi trovo a citare Luca Ricolfi.
In effetti lo stimo molto e per questo ricerco e leggo le sue analisi sul sito della fondazione Hume.
Capita anche, però, che ritrovo da lui ben espresse idee che ho maturato nella mia ben più modesta mente.
In questo articolo pubblicato su Il Messaggero per esempio, dopo aver disvelato le aporie ideologiche che dominano certe scelte (tipo "riapriamo tutti assieme"), descrive il "sovracosto" della riapertura regionale.
Il presupposto è che abbiamo riaperto senza effettivamente essere certi che il virus sia scomparso, senza essere pronti a conviverci con sicurezza. 
A mio avviso è stata una scelta buona, che doveva essere fatta anche prima. 
E' mancata l'esplicitazione della scelta politica, prima ancora del fatto che ci sia stata una scelta politica: Quando ci sono due valori in ballo, è normale che sia la politica a decidere. E nessuno può dire qual è il “tasso di cambio” ragionevole fra un punto di Pil in meno e 1000 morti in più
Questa del "tasso di cambio" è una cosa che io sostengo da tempo, con pochi interlocutori fidati. Non che possa essere calcolato, ma che il cuore del problema insista nello stabilire che vi sia un numero di decessi non accettabile per salvare l'economia (e che quindi, sotto quel numero, diventi accettabile), mi è stato chiaro fin dall'inizio. 
Probabilmente non è cosa che riuscirebbe ad essere spiegata, da questa classe dirigente, a questo popolo. Nessuno potrebbe permettersi questo discorso: La rinuncia a renderci coscienti dei maggiori pericoli cui stiamo per andare incontro rende il costo della salvaguardia dell’economia ancora più alto di quel che sarebbe se le autorità parlassero chiaro, e osassero dirci la verità: l’epidemia non è sotto controllo, i pericoli sono ancora molto grandi, se riapriamo non è perché siamo in grado di farvi lavorare e divertire “in sicurezza”, ma perché abbiamo deciso che la priorità è salvare l’economia e restituirvi un po’ di normalità.

mercoledì 3 giugno 2020

Cima Avostanis

Sono due anni che non parlo delle "mie montagne".
Ma non le ho certo abbandonate.
Con la mente soprattutto, perchè ogni volta che vedo splendere il sole e volgo lo sguardo a Nord, al nostro arco alpino, sogno di essere lassù.
E' una cosa che mi manca sempre tantissimo.
Tra la fine del 2018 e l'anno passato ho fatto alcune uscite, tra cui significativo il da tempo agognato "Iof di Miezegnot", un passaggio al vecchio caro Cuarnan e un paio di gite al Rifugio Nordio - Deffar, al Pura e al rifugio Vault.
Anche ieri ho programmato una gita familiare, che inizialmente doveva puntare al capanno Brunner sopra Cave, ma poi è stata dirottata sul laghetto Avostanis.
Si prevedeva un certo afflusso alla Casera Pramosio, tuttavia il numero di macchine che vi abbiamo trovato è stato veramente sorprendente, abbiamo parcheggiato a diverse centinaia di metri.
Ci siamo quindi incamminati sul facile percorso verso il laghetto, lungo la strada comoda anche se a tratti un po ripida, comunque adatta anche ai meno allenati, per raggiungerlo in poco più di un'ora (abbiamo proceduto a ritmo decisamente lento).
Nel mentre pranzavo in riva al lago a quota 1940, ho sentito che la cima era a solo mezzora, ed ho deciso di staccarmi dalla compagnia per raggiungerla.
Praticamente correndo in circa venti minuto sono giunto al culmine della Cima Avostanis a 2193 metri, godendomi il bel panorama con vista sulla Creta di Timau e su tutto il versante austriaco.
Nel mentre salivo, pensavo che questa non è "la grande bellezza", è "la vera bellezza". 



martedì 19 maggio 2020

Più mai-inteso che malinteso

Ancora un anniversario, quattro anni dalla morte di Marco Pannella.
Sembrerà forse sproporzionato lo spazio che dedico a ricordarlo: ma mi permette di rammentare molte cose della persona che vorrei essere.

I ricordi quest'anno sono stati concentrati il giorno in cui avrebbe compiuto 90 anni, ma anche oggi ho letto le belle parole (le definirei autenticamente d'amore) di Sergio D'Elia:
Qual è il “segreto”? Come diceva Gandhi: incarnare il cambiamento che vuoi vedere nel mondo. Come faceva Marco: vivere nel modo e nel verso in cui vuoi vadano le cose. Io ho messo una vita a capirlo. Quando l’ho capito, è iniziata un’altra vita.

Qualche giorno fa mi è capitato di riascoltare, alla presentazione del suo "Sillabario dei malintesi", Francesco Merlo che leggeva il capitolo dedicato al pannellese, in un libro che si fonda sulle parole come chiave di interpretazione della realtà storica.
Anche come tributo alla sua penna, la migliore del giornalismo italiano probabilmente, lo riporto, permettendomi di evidenziare i passaggi chiave:
Anche Pannella non diceva parolacce, non ricorreva al turpiloquio. Usava un linguaggio violento che però smaterializzava la violenza, colpiva ma rendendo aereo il colpo, togliendogli ogni traccia di fisicità. La tensione morale era il suo codice.
Il linguaggio di Bossi e di Salvini, fatto di pallottole, musi di porco, lazzi omofobi e truculenze razziste, e quello di Grillo, fatto di "falliti», "zombie», "salma», "merda liquida»... sono sproloqui da bettola, da caserma o da avanspettacolo che magari disgustano, sicuramente hanno cambiato la lingua politica, qualche volta intimidiscono, ma non riescono mai a irritare, a colpire davvero, a ferire intellettualmente, perché mai le loro sgangheratezze sono solidali con la dimensione intellettuale della convivenza civile.
Al contrario, qualsiasi persona civile percepiva la sostanza intellettuale del ragionamento di Pannella, del suo codice, anche quando esagerava. Il degrado del rapporto tra l’informazione e il potere in Pannella era "la morte della libertà»; in Grillo è "siete finiti, siete lecca lecca, i vostri giornali chiuderanno; basta: i giornalisti non possono infestare Camera e Senato e muoversi a loro piacimento, ma vanno disciplinati in spazi appositi», e mentre la folla grillina li prende a spintoni lui sul palco li chiama "piranha» e li insolentisce. Pannella invece digiunava contro "il reato flagrante che lo Stato commette violando i diritti più elementari nelle carceri e il diritto alla normale durata dei processi». Per entrambi lo strapotere dei partiti era "regime». Ma Pannella denunciava questo regime - "il potere che offende, nega, uccide la stessa legalità che proclama e che ha il compito di servire» - in pannellese, che non era un linguaggio semplice perché "non c’è sulla terra una sola parola che lo sia». Diventava armoniosamente inarrestabile, percorso da sibili: "Quel Maroni è l’assassino degli immigrati che respinse in mare, glielo abbiamo detto e lui ha risposto che non gliene frega nulla». E poi fragorosi non-stop su argomenti come il sensus fidelium che un ironico sussurro trasformava in consensus fidelium. Il suo colloquiare diramava per rivoli inaspettati sino allo spiritualismo e all’energia: "Il non uccidere vale anche per la legittima difesa, perché se sei bravo devi ferire, invece che uccidere». Poi improvvisamente il lessico diventava quello immediato della libertà, più pericoloso di qualsiasi controprova e di qualsiasi violenza del potere: "Ho spiegato al presidente del Consiglio che il mio sciopero della fame non vuole costringerlo a fare le cose che non vorrebbe fare ma, al contrario, che voglio aiutarlo a fare le leggi che non riesce a fare».
A far saltare il linguaggio era la fortissima trama etica, la radicalizzazione di un disagio, la soluzione radicale a quel comune disagio, ma tutti sapevano che Pannella era un non violento che teorizzava la non violenza, che protestava imbavagliandosi o bevendo la propria orina in tv: "Senza giustizia preferisco morire». E mai insultava le persone, mai avrebbe proposto di processare uno per uno gli avversari politici e condannarli alla gogna dello sputo. Anzi, quando finirono sotto processo, li difese con la stessa passione con cui li aveva attaccati.
E infatti i primi a non sopportare Pannella erano quelli che meglio capivano la sostanza morale delle sue battaglie civili, ma vivevano come una ferita la radicalizzazione della coscienza. Ci si sente offesi dall’insulto di un familiare, dall’insolenza di un compagno che condivide la tua stessa grammatica etica, e anzi di quella grammatica è il professore, l’autorità, l’eroe combattente. Al sostanzialismo etico di Pannella non potevi contrapporre lo stile cerimonioso, la sobrietà del linguaggio, il tono basso della voce, i passi felpati della funzione e dunque "sradicalizzare» i radicali. Sarebbe stato un pessimo servizio agli italiani. Era infatti una purificazione e un arricchimento anche dell’italiano lasciar straripare il linguaggio di Pannella, fiume in piena e alluvione, piuttosto che cercare di canalizzarlo in rubinetti di ceramica.
"Sostengono», gli dissi qualche mese prima che morisse, "che sei diventato prolisso». "Torrenziale, ripetitivo, noioso... me lo dicevano i comunisti già nel 1970. E da anni dicono che sono morto». Ti trattano, da vivo, come fossi morto. "E sono pronti, da morto, a trattarmi da vivo». Pannella, che pure non era un italiano canterino, accennò una canzone: "Ma pecché, pecché ogne sera / penzo a Napule commera / penzo a Napule comm è. Questa canzone», mi confidò, "da un po’ di tempo mi torna nella mente, anche in sogno, come una febbre musicale». Malinconia? "È la durata, il passato che ci segue tutto intero, galoppa al nostro fianco: penso a com'era e penso a com’è». La durata di Bergson-Pannella significava che il grosso Mangia- fuoco logorroico è, nel flusso di coscienza, anche lo scheletrico Pinocchio imbavagliato, con il girocollo nero e il lunghissimo naso affilato... 
Significa che si può entrare e uscire in qualsiasi punto della vita di ciascuno e ritrovarlo sempre intero e sempre nuovo.
In pannellese le bretelle erano "come quelle del filosofo Siegfried Kracauer che legavano le idee più fantasiose alla terra più ferma». E le sue cravatte "antipartitocratiche, libertarie, nonviolente, antiproibizioniste, quando non stanno al mio collo dormono e fanno sogni allegri». La grammatica di Pannella era fatta di pugni sulle braccia, qualche pizzico, carezze sulla guancia. Con il Dalai Lama si toccarono per più di mezz’ora, "se fai qualcosa che non mi piace vengo a Roma e ti do un morso». Era la grammatica, Pannella.
Ma in quel 1986, che fu l’anno di Chernobyl e della diffusione della sua nube radioattiva, Pannella e Bordin decisero di sospendere i programmi di Radio Radicale e lasciare la parola agli ascoltatori, come rovesciare una città e portare la fogna sopra e i tetti sotto.
E gli italiani, invitati a registrare un messaggio di un minuto con le proprie opinioni sulla radio, produssero ottocento ore ininterrotte di bestemmie e insulti; un’altra nube radioattiva, di oscenità.
Se provaste a riascoltare oggi le registrazioni capireste subito che in quella maratona radiofonica di volgarità la parolaccia era libertà, faceva scandalo ma rassicurava la lingua, confermava la grammatica violandola, non pretendeva di farsi nuova cultura. Faceva parte, con gli errori, le storpiature, le forme dialettali, il procedere sincopato e mille altre "ricchezze» linguistiche, del sottosuolo italiano: "E giusto che questo tetro mondo a luci rosse», disse Pannella, "venga finalmente alla luce del sole. È una fotografia inquietante ma straordinariamente interessante dell’Italia. Ci sono tanti moralisti che borbottano, ma non c’è neanche un sociologo che si prenda la briga di studiarle quelle voci, e nemmeno un linguista che si metta ad analizzare la diversità delle parlate, le sfumature fonetiche, le inflessioni dialettali. Un enorme patrimonio di conoscenza, e loro lo sprecano così». Aveva ragione.

Con un canestro di parole nuove, calpestare nuove aiuole

sabato 16 maggio 2020

A ciascuno il suo

di Leonardo Sciascia
Sono in fase sciasciana, si è capito.
Giallo "politico", nel senso che a questo aggettivo attribuiva l'autore, considerandolo necessario attributo delle sue opere, in cui si trovano disseminate con dovizia/delizia le consuete citazioni letterarie (Manzoni, Voltaire, Giuseppe Antonio Borgese, Pirandello, Casanova, uno scrittore polacco che cita Camus). 
Il duplice omicidio iniziale diviene oggetto di curiosità intellettuale da parte di un professore di lettere, che inizia una sorta di indagine privata. Gli sarà fatale, dopo averne scoperto il movente nei traffici illeciti di un notabile, miscelati con la componente passionale.
E gli autori del crimine, ormai evidenti a tutti tranne che alla polizia, ne godono trionfali i frutti, nel silenzio appena disturbato dal chiacchericcio, mentre il povero professore giace in una solfatara abbandonata.
"Era un cretino", il giudizio su di lui con cui si chiude il libro 
Protagonista del romanzo è evidentemente la Sicilia, raccontata nei suoi peggiori pregiudizi e nelle peggiori consuetudini, descritti con amara ironia della prosa asciutta e perfetta di Sciascia.
Un terra abbandonata in cui lo stato è inutile simulacro in cui non crede nessuno (mercè i "secoli d'infamia che un popolo oppresso, un popolo sempre vinto, aveva fatto pesare sulla legge e su coloro che ne erano strumenti"), ma che i suoi stessi abitanti fanno di tutto per piegare al proprio interesse. Una terra in cui tutti sanno chi è il notabile "che corrompe, che intrallazza, che ruba", in cui "rimettere insieme la roba" è opera di carità, che "è fatta di tanti personaggi simpatici a cui bisognerebbe tagliare la testa".