venerdì 30 aprile 2021

30 aprile 1993. Bettino Craxi. L'ultimo giorno di una Repubblica e la fine della politica

 di Filippo Facci


Un amico che mi conosce bene mi ha regalato questo libro, appena uscito, ed appena in tempo per cancellare l'ordine della copia cartacea che avevo già inoltrato.

Facci è un giornalista di cui apprezzo l'intelligenza e la penna, per quanto spesso indulgente ad un evidente narcisismo; già lo conoscevo come "craxiano ad personam" e ragazzo che seguì in prima persona la tragedia che qui racconta.

Il libro alterna delle brevi parti in è ricordato il suo rapporto personale con Craxi, con la cronaca dei due giorni di fine aprile 1993 nei quali Facci individua "l'ultimo giorno di una Repubblica". 

Solo nel titolo e in pochi altri passaggi l'autore esprime un giudizio, delle valutazioni: per il resto si tratta di una documentata e accurata cronistoria, una "fredda cronaca". Ciò evidentemente perchè la natura dei fatti rappresentati (valga come esempio il paventato ricorso della Procura milanese contro la decisione del Parlamento sull'autorizzazione a procedere) è tale da sola da ottenere l'effetto di lasciare sgomenti, ricordando ai più (quorum ego) la gravità dell'errore in cui incorsero nel momento in cui parteggiavano acriticamente per i magistrati milanesi, incuranti o meglio incapaci di vedere accanto al procedere delle indagini la somma delle ingiustizie che venivano perpetrate, e la natura in fondo politica del compito che la magistratura allora si assunse.

La "fine della politica" è definizione probabilmente eccessiva anche per un evento così drammatico, che fu, per l'autore, un vero e proprio linciaggio mancato (perchè non riuscito), ma che non trovò al tempo nemmeno l'onore delle cronache nei giornali dell'indomani, assurgendo a evento simbolico solo molto dopo.

Di certo la posizione di forza che la magistratura si "guadagnò" in quei giorni non è mai più stata riequilibrata, con effetti sotto gli occhi di tutti sulla reale esistenza di uno stato di diritto nel nostro Paese.

lunedì 26 aprile 2021

We want our cold nights in Stoke

Come stava scritto su un cartello alzato dai tifosi del Chelsea, fuori da Stamford Bridge per protestare contro la Superlega.

Vogliamo le nostre fredde serate a Stoke. 

L'ha spiegato Paolino Di Canio, che le trasferte da tifoso le ha fatte: "Questo rappresenta il sentimento comune -, le parole dell'ex attaccante al Club -, Stoke-on-Trent è una cittadina nello Staffordshire, tra Birmingham e Manchester. Una ridente, anzi 'piangente' cittadina, dove c'è sempre vento di traverso. Non piove, ma c'è nevischio tutto l'anno. Però andare in questi posti è una cosa bellissima per chi ama le trasferte. Si va in treno o in pullman, si bevono sette pinte di birra e si assiste alle partite a petto nudo con meno 5 gradi e il vento di traverso. Con la Superlega si stava togliendo questo. Perché la bellezza dei tifosi è proprio questa: non è tanto andare a vedere le partite contro il Manchester, ma, per confermare il proprio amore e dimostrare il proprio entusiasmo, portare il proprio figlio o l'amico in trasferta a Stoke-on-Trent nel Monday night

Nella vicenda della Superlega è valsa la subitanea impressione che si trattasse, nei tempi e nei modi, di un troppo anche rispetto alle follie già perpetrate dal "calcio moderno", rendendo superflue considerazioni che, parlando di merito e di valori diversi dal denaro, avrebbero avuto l'inevitabile sapore dell'ipocrisia.

Ci mancano quelle trasferte disagiate.

Ci mancano anche le domeniche alla radio, l'attesa di Novantesimo o della moviola di Sassi.

I giocatori naif, Carlo Mazzone che corre verso la curva dell'Atalanta.

La partita scandita non da musica a palla, ma da quei cori da gente semplice, ma con il cuore saldo; anche con dentro un vaffanculo. 

Avremo invece la Super Champions. E rimane tutto il resto: i milionari tautati e twittatori, i procuratori nababbi, i presidenti cinesi, le giornate spezzatino, la musica a palla che copre i cori, i tornelli, le trasferte vietate. 

La trasformazione del più popolare degli sport in una importante costola dello showbiz è un processo probabilmente irreversibile, magari non privo di effetti positivi, che comporta inevitabilmente la trasformazione dei tifosi in clienti.

A noi, che c'innamorammo quando in campo c'erano loro, Zico Edinho Massimo Mauro, Galparoli e Franco Causio, un po' dispiace. Saranno l'età e la nostalgia di quel bambino che cantava "Zico Zico", di quel ragazzo che amava Abel Balbo, che offuscano il raziocinio. 

Ma l'impressione è che, se si uccide la passione, muore tutto il resto. 

No al calcio moderno, sì alle trasferte a Stoke.

domenica 25 aprile 2021

Napoleone

 di Vittorio Criscuolo


Lettura d'obbligo per non arrivare impreparati al 5 maggio. 

Agile biografia, con alcuni approfondimenti tematici, utile per riprendere in mano il testo di Georges Lefebvre.

domenica 11 aprile 2021

Il richiamo della foresta

 di Jack London


Sempre piacevole la lettura di questo classicissimo, ovvia conseguenza di questo momento "wild".

Into the wild

di Sean Penn

Di film non ho mai parlato, qui.
Non sono propriamente un cinefilo, del resto, nè posso dire di capirne quanto servirebbe a discettarne con cognizione di causa.
Ultimamente, aiutato dalla straripante offerta delle varie piattaforme, ho preso a vederne di più, anche nel tentativo di impiegare parte del tempo che i ragazzi passano davanti ad uno schermo in un'occupazione che possa lasciar loro qualcosa. Ho fatto anche una lista di opere che a mio avviso devono vedere, cosa a cui si prestano di buon grado. 
Questo di Sean Penn non lo conoscevo (ci sono arrivato per vie traverse partendo da una traccia trovata nel libro di Cognetti, il cui protagonista leggeva Krakauer), e mi ha vivamente impressionato, lasciandomi nei giorni successivi quel pensiero fisso, al protagonista e alla sua storia, come solo certi "capolavori del cuore" (cioè quei libri, spettacoli o film che ti emozionano, al di là del loro valore oggettivo, magari per dei pensieri che solo tu vi hai collegato). 
E' un vero peccato non aver visto questo film in una sala cinematografica, in cui apprezzare le fantastiche riprese dell'Alaska (ma anche dell'America profonda), in cui, forse, lasciare qualche lacrima nei momenti in cui la straordinaria colonna sonora accompagna il viaggio di Chris Mccandless verso il centro del suo cuore.
I temi si accavallano, mentre Chris sperimenta la ribellione ai genitori, a una società che non sente sua perchè falsa e lontana da quella verità che insegue, cercandola nei libri, nella bellezza, nella natura, in una vita in cui non vi sia niente se non l'essenziale. Conosce l'amicizia, prova la confortante fatica di un lavoro a contatto con la natura, sfugge alla tentazione di tornare nel mondo che ha lasciato (rifiutando l'immagine dell'altro Chris che poteva essere), trova quello che potrebbe essere un vero padre, ma in tutti i momenti in cui potrebbe fermarsi, restare in un posto in cui essere comunque se stesso, decide di ripartire per il suo chiodo fisso: l'Alaska.
E' diventato un "mito", come si dice oggi, rendendo il suo "Magic Bus" una meta di pericolose escursioni, al punto che hanno dovuto rimuoverlo.
Krakauer e dopo di lui Penn hanno colto nella sua storia motivo di riflessione su altri temi, come "il fascino che i territori selvaggi suscitano nell'immaginario americano, l’attrattiva che le attività ad alto rischio esercitano su certi ragazzi, il complicato e delicato legame che unisce padri e figli". Aggiungerei  la letteratura come sola chiave di comprensione della realtà (anche alla fine, quanto Chris appunta da Pasternak "la felicità è vera solo quando è condivisa"), il rapporto con la natura che quando diventa sfida presenta il suo conto.
Penn (con Hirsch, Vedder, Holbrook, tutti bravissimi), in particolare l'ha fatto realizzando un film bello, struggente come la storia che racconta, pieno di cura e di amore nei dettagli, che ti entra dentro, ed è normale che sia diventato un cult. 
Perchè, alla fine, parla di noi, anche di noi che a Chris non assomigliamo, che non abbiamo la sensibilità nè il coraggio (nè il bisogno?) per fare come lui; ma che come lui abbiamo nel cuore la ricerca di quella persona cui vorremmo assomigliare; la ricerca della felicità. 

Il bosco del confine

 di Federica Manzon

Trieste anni ottanta. L'eredità che un padre lascia alla figlia è fatta di camminate nel bosco, simbolo di un luogo senza confini, in cui le persone possono realizzare di essere tutte uguali.
A Sarajevo, durante le Olimpiadi del 1984, i due assistono ad un momento in cui certi sogni sembrano possibili: ma sono un'illusione, con già i preludi della tragedia che si prepara, per la città che la ragazza elegge come luogo del cuore.


venerdì 9 aprile 2021

Sliding doors

Mettiamo che (il dubbio mi resta) Michel non sapesse che le sedie erano due, e che sia solo una fallace impressione quello scatto che fa per accomodarsi in quella di sinistra.

Aveva la possibilità di un gesto che l'avrebbe reso il simbolo dei valori di eguaglianza dell'Europa, il corifeo di una civiltà aperta e moderna, colui che sbertucciava a casa sua il dittatore (mai parola così imprecisa fu così adeguata) intento a fare il bulletto misogino: gli bastava cedere la sedia, o sedersi anche lui sul divano, e diveniva una specie di eroe. 

Ha fatto invece prevalere il suo io (machista? poco conta), chissà quale puntiglio da beghe intracomunitarie, squalificandosi nella maniera più clamorosa, ed ora corre verso dimissioni che non potranno tardare.

"Bravo mona", dicono a Trieste, dove in fondo sono di buon cuore.

domenica 4 aprile 2021

Dante

 di Alessandro Barbero

In occasione della ricorrenza dantesca avevo scelto "Dante in esilio" di Chiara Mercuri, che poi ho trovato difficoltoso e alla fine non ho terminato.
Questo testo di Barbero ha invece risposto pienamente alle mie aspettative: è una vera biografia, sulla vita di Dante e non sull'opera o sulla sua importanza, scritta da uno storico.
Leggendo la quale la conclusione più immediata è che di storicamente accertato di Dante sappiamo (molto più che di qualunque contemporaneo ma) molto poco.
Fedele all'analisi dei documenti, analizzando i vari passaggi della sua vita e le congetture fatte dai dantisti, Barbero il più delle volte giunge alla conclusione che su  molte questioni sono possibili solo ipotesi non verificabili.
Quasi nulla sul matrimonio, poco sugli spostamenti durante l'esilio, dubbi anche sull'evoluzione della sua posizione politica e del suo rapporto con il regime che glie l'ha inflitto. 
Nonostante la fedeltà al metodo storico, il racconto si mantiene interessante e avvincente, offrendo anche spunti che dimitizzano la figura che abbiamo conosciuto sui banchi di scuola.
Non essendovi spazio per descrizione della sua opera (e quindi della sua grandezza di artista) l'uomo ci appare anche nelle sue debolezze, forse un po' più simile a noi.  

sabato 3 aprile 2021

Che fine hanno fatto i bambini

 di Annalisa Cuzzocrea

Il saggio del momento, scritto dalla (brava) giornalista del momento. Vi ho trovato alcune idee che ho maturato da tempo; altre che mi hanno portato a nuove riflessioni.
Non sarà "Figli dell'uomo "di Ida Magli (opera dura ed utile a ricordare che, nella storia, di infanzia si è fatta vera e letterale strage), ma parla di noi, questo breve e partecipato libro.
Le "cronache" (capitoli in cui vengono raccontate storie di infanzia, ovvero incontrate persone che se ne occupano professionalmente) sono dei tempi della pandemia: ma il tema della scarsa considerazione dell'infanzia  non è certo dell'ultimo anno; in cui peraltro il problema delle scuole chiuse era visto soprattutto dal punto di vista dei genitori costretti a casa anche loro, e non del deficit formativo, educativo, sociale dei ragazzi, chiaro esempio di come proceda la discussione pubblica su questo argomento.
Il concetto di base è che mentre i figli sono diventati per le famiglie un iperinvestimento, come non mai al centro dell'attenzione, la dimensione pubblica li ha abbandonati, non occupandosene sotto forma di strutture, coinvolgimento, programmi,  e al tempi stesso è venuta meno la "comunità educante", quel sistema in cui un bambino poteva andare a scuola a piedi da solo perchè sarebbe stato vegliato dagli occhi dei vicini e dei negozianti della via, ed in cui era possibile e giusto rimprovare un bambino sconosciuto che faceva una marachella ("ama i figli degli altri come fossero i tuoi").  
Come genitori siamo impreparati. Lo dico da sempre io: si fa un corso per guidare, per nuotare, per cucinare, ma per la cosa più importante, essere genitori, ci sentiamo tutti già pronti (fondandoci sul "tirocinio" fatto come figli). 
E quando accade il dramma dei bambini dimenticati sul seggiolini cosa facciamo, invece di chiederci come mai in nostri tempi di vita non li contemplano, che facciamo? Mettiamo l'allarme (sulla "legge Meloni" come specchio dei tempi, sotto più punti di vista, ne avrei di cose da dire).
Iperprotettivi, "ci preoccupiamo dei nostri figli ma non ce ne occupiamo"; ricevono solo prescrizioni, la richiesta di stare fermi e buoni vicino alla mamma. Così non rischiano mai nulla, "non conoscono le ginocchia sbucciate". Esemplare il tema dell'accompagnamento a scuola: "io stessa ho sempre accompagnato i miei figli a scuola e mi rendo conto che proprio la mia generazione ha danneggiato moltissimo la loro autonomia"
Colpa anche della pretesa di avere delle "supermamme": forse le donne hanno diritto di avere un'esistenza normale, di affrontare i problemi che incontrano senza sentirsi inadeguate, senza esser "atlete della vita".  E anche, però, di non dover "fare della fatica un manifesto". 
Certo, però purtroppo (eccheggiano molteplici discussioni familiari), "la nostra è la prima generazione di genitori che vivono questo ruolo come una performance". 
Critichiamo i ragazzi perchè non si staccano dal cellulare (e noi?), perchè non leggono, non si informano, ma forse davvero non li conosciamo, non sappiamo cosa vogliono e pensano, li confrontiamo non con il futuro che li aspetta ma con quello che avevamo in mente per loro e non siamo capaci di realizzare.
Ne esce male, la mia generazione, e vale poco dare la colpa allo stato, al sistema (al più siamo noi che "abbiamo smesso di pensare collettivamente". 
Siamo noi, che stiamo rovinando i nostri figli.