Tra i molti, questi tempi si sono portati via anche Gianni Marongiu.
Professore universitario, ministro e sottosegretario, da parlamentare padre dello Statuto del contribuente, è stato anche l'autore di diversi libri che nel loro insieme completano una "storia fiscale" d'Italia di cui ho recentemente avuto modo di completare la collezione, grazie alla riedizione della parte relativa all'Italia fascista.
Si tratta di testi che hanno attratto in maniera particolare la mia attenzione, coniugando la ricerca storica con un oggetto di cui mi occupo per mestiere, e che hanno un altissimo pregio storiografico, cui uniscono la capacità di una riflessione incentrata sull'etica del tributo (ben descritta in questo ricordo su fiscooggi).
Ebbi l'occasione di complimentarmi con il professore una volta che lo incontrai al convegno che annualmente organizzava in Castello il dottor Lunelli, altra persona che ci ha lasciato in questo anno infame; gli dissi in particolare che ero affascinato dall'apparato delle note, che inducevano nel lettore voglia di comprare una biblioteca (in misura pari all'ammirazione per la cultura di chi le aveva vergate).
Il libro affronta l'ultima parte della "storia", significativamente diversa per le premesse in un periodo in cui per il Paese di prospettava la necessità della ricostruzione materiale e morale, per l'importanza dell'inserimento in Costituzione del principio "no taxation without representation" (l'articolo 23 della Costituzione, ove la riserva di legge evidenzia il rapporto tra tributo e natura democratica dell'ordinamento) e della valenza anche giuridica del dovere di contribuzione, delineata significativamente dall'articolo 53 come concorso e non come obbligo.
Vero oggetto del libro, che pure non manca di accompagnare la descrizione degli avvenimenti politico-istituzionale con quella delle principali innovazioni in materia fiscale e finanziaria, è la dialettica tra l'afflato all'attuazione di tali principi, proprio di alcune personalità di spicco e della parte più avveduta della classe dirigente, e la mutevole capacità della politica di farsene carico.
Emerge nella prima fase, quella che Marongiu definisce del "riformismo centrista", la figura di Ezio Vanoni, padre della dichiarazione annuale, artefice della sistemazione del sistema tributario nel primissimo dopoguerra, ma anche erede di una tradizione di uomini di stato ispirata da parole come queste: "Bisogna avere il grande coraggio, la grande fantasia, veramente la grande fantasia nel nostro paese, di non fare cose inutili, formali, e di fare magari modeste cose ma che veramente contano, come ad esempio rimettere gradatamente a posto i diversi servizi e i diversi uffici, fino a fare in modo che ad ogni funzione corrisponda lo strumento adatto, essere sicuri che ad una determinata imposizione del Parlamento corrisponda la possibilità di esecuzione delle norme contenute nelle diverse leggi". Uomo animato dagli stessi principi che l'autore sente profondamente suoi, citandone nell'introduzione la seguente espressione rivolta ad un convegno accademico: "Voi che avete nelle vostre mani gli strumenti della tecnica economica, potete e dovete diffondere questa persuasione in mezzo al popolo italiano: che non esistono miracoli, in economica, che non esistono macchine capaci di creare automaticamente il benessere, ma esistono modi di ragionare, esistono impegni che, se assunti in modo conseguente e lucido e con fondamento, possono portare ai risultati di sviluppo, di tranquillità, di equilibrio politico e sociale che interessano ognuno di noi.
La trattazione procede, attenta sul lato più "politico" alle vicende del riformismo nelle varie fasi della storia repubblicana, attorno ad alcuni temi chiave: l'attuazione dei principi costituzionali; il ruolo della finanza locale ed i danni causati dall'assenza dell'autonomia anche finanziaria; l'attenzione al fenomeno tributario essenzialmente in termini quantitativi, come strumento di finanziamento di una spesa pubblica al cui controllo non si è dedicata la dovuta attenzione.
Alla riforma nel mezzo dei "tragici anni 70" succede un periodo che Marongiu definisce "una occasione perduta": la rinascita economica negli anni 80 diviene paradossalmente il momento in cui la spesa esce dal controllo generando la crescita del debito pubblico di cui ancor oggi scontiamo le conseguenze.
Raffrontando quel decennio a quello successivo, gestito da una classe dirigente e politica cui Marongiu partecipò in prima persona, rivendica (senza mai nominare il proprio operato e la propria partecipazione) i successi conseguiti negli anni novanta che videro (oltre che gli ultimi significativi successi nella razionalizzazione del sistema tributario) la riduzione del debito e l'ingresso nell'euro contro ogni previsione e da sfavorevoli condizioni di partenza. Alla sua generazione attribuisce (indirettamente, ma evidentemente, richiamandosi ad altre di cui ha descritto i meriti nelle sue "storie") i meriti di aver saputo interpretare la lezione enaudiana: "la base morale dell'economia politica non è la soddisfazione degli appetiti, ma l'espletamento dei doveri onde lavoro, pazienza, giustizia pace e disciplina sono le molle principali della produzione economica"
Giunto all'epilogo lo storico lascia il campo al politico, al teorico. Lamenta l'arrestarsi della capacità riformista, della cui esigenza fornisce una bella enunciazione: "la società industriale, anche in un contesto liberal democratico (quello nel quale fortunatamente ci si muove), è sempre contraddistinta da due caratteristiche tra loro contraddittorie: essa, da un lato, proclama l'uguaglianza dei cittadini (con riguardo ai loro diritti civili e politici) e , dall'altra, produce più o meno gravi ineguaglianze dei loro redditi e dei loro modelli di vita; e tale ineguaglianza è spesso determinata non già dai meriti e dai demeriti individuali, bensì dai diversi punti di partenza sociali".
Stigmatizza il deterioramento della capacità del Parlamento di determinare linee guida e contenuti della politica fiscale, indebolendo il legame che fa del "consenso", democraticamente espresso nella assemblea rappresentativa, rende i tributi parte di un concorso consapevole ed eticamente rilevante alle spese pubbliche, non un obbligo spregiato e vilipeso.
In una bella pagina viene elegantemente sbeffeggiata la bieca e volgare (aggettivi miei) espressione "mettere le tasche nelle mani degli italiani. Essa offende l'intelligenza dei cittadini di cui vellica gli istinti, nascondendogli che le risorse non reperite con l'istituzione di nuovi tributi vengono trovate altrimenti ed in maniera meno trasparente (ad esempio con il fiscal drag o con l'inasprimento di regole procedurali), ma soprattutto capovolge l'impostazione costituzionale per la quale i tributi sono prezzi pagati da ciascuno per garantire i servizi (ed i diritti) di tutti, e non la "copertura di spese". Non è l'unica stoccata destinata a Berlusconi e Tremonti, significativamente non citati nel testo, se si leggono le pagine in cui si criticano le (propagandistiche) abolizione dell'IMU e dell'imposta sulle successioni.
Le prospettive future vengono delineate intorno alla attuazione di premesse già esistenti, attorno ai principi dello Statuto (la cui approvazione, viene da pensare per pudore, non trova forse lo spazio che meriterebbe: certezza e diritto da perseguire soprattutto con una legislazione più razionale, codice tributario che garantisca l'unità del sistema, l'attenzione dell'amministrazione al cittadino, la soluzione del problema di una giurisdizione tecnicamente attrezzata.
In seguito all'insorgenza nazional-populistica tutta una cultura politica è entrata in crisi e sembra, quindi, imporsi un ritorno alla ragione e al rispetto della Costituzione.
In questa direzione vogliono muoversi le indicazioni sopra delineate, forse modeste, ma sicuramente utili per il "buon governo" di un dovere tanto delicato quale è l'obbedienza fiscale: ridare al Parlamento la sua antica funzione , dare nuovo vigore all'art. 23 della Costituzione, ribadire, a difesa degli individui e al di sopra delle corporazioni burocratiche, la supremazia del diritto, rinforzare il ruolo della "iuris dictio".