martedì 19 maggio 2020

Più mai-inteso che malinteso

Ancora un anniversario, quattro anni dalla morte di Marco Pannella.
Sembrerà forse sproporzionato lo spazio che dedico a ricordarlo: ma mi permette di rammentare molte cose della persona che vorrei essere.

I ricordi quest'anno sono stati concentrati il giorno in cui avrebbe compiuto 90 anni, ma anche oggi ho letto le belle parole (le definirei autenticamente d'amore) di Sergio D'Elia:
Qual è il “segreto”? Come diceva Gandhi: incarnare il cambiamento che vuoi vedere nel mondo. Come faceva Marco: vivere nel modo e nel verso in cui vuoi vadano le cose. Io ho messo una vita a capirlo. Quando l’ho capito, è iniziata un’altra vita.

Qualche giorno fa mi è capitato di riascoltare, alla presentazione del suo "Sillabario dei malintesi", Francesco Merlo che leggeva il capitolo dedicato al pannellese, in un libro che si fonda sulle parole come chiave di interpretazione della realtà storica.
Anche come tributo alla sua penna, la migliore del giornalismo italiano probabilmente, lo riporto, permettendomi di evidenziare i passaggi chiave:
Anche Pannella non diceva parolacce, non ricorreva al turpiloquio. Usava un linguaggio violento che però smaterializzava la violenza, colpiva ma rendendo aereo il colpo, togliendogli ogni traccia di fisicità. La tensione morale era il suo codice.
Il linguaggio di Bossi e di Salvini, fatto di pallottole, musi di porco, lazzi omofobi e truculenze razziste, e quello di Grillo, fatto di "falliti», "zombie», "salma», "merda liquida»... sono sproloqui da bettola, da caserma o da avanspettacolo che magari disgustano, sicuramente hanno cambiato la lingua politica, qualche volta intimidiscono, ma non riescono mai a irritare, a colpire davvero, a ferire intellettualmente, perché mai le loro sgangheratezze sono solidali con la dimensione intellettuale della convivenza civile.
Al contrario, qualsiasi persona civile percepiva la sostanza intellettuale del ragionamento di Pannella, del suo codice, anche quando esagerava. Il degrado del rapporto tra l’informazione e il potere in Pannella era "la morte della libertà»; in Grillo è "siete finiti, siete lecca lecca, i vostri giornali chiuderanno; basta: i giornalisti non possono infestare Camera e Senato e muoversi a loro piacimento, ma vanno disciplinati in spazi appositi», e mentre la folla grillina li prende a spintoni lui sul palco li chiama "piranha» e li insolentisce. Pannella invece digiunava contro "il reato flagrante che lo Stato commette violando i diritti più elementari nelle carceri e il diritto alla normale durata dei processi». Per entrambi lo strapotere dei partiti era "regime». Ma Pannella denunciava questo regime - "il potere che offende, nega, uccide la stessa legalità che proclama e che ha il compito di servire» - in pannellese, che non era un linguaggio semplice perché "non c’è sulla terra una sola parola che lo sia». Diventava armoniosamente inarrestabile, percorso da sibili: "Quel Maroni è l’assassino degli immigrati che respinse in mare, glielo abbiamo detto e lui ha risposto che non gliene frega nulla». E poi fragorosi non-stop su argomenti come il sensus fidelium che un ironico sussurro trasformava in consensus fidelium. Il suo colloquiare diramava per rivoli inaspettati sino allo spiritualismo e all’energia: "Il non uccidere vale anche per la legittima difesa, perché se sei bravo devi ferire, invece che uccidere». Poi improvvisamente il lessico diventava quello immediato della libertà, più pericoloso di qualsiasi controprova e di qualsiasi violenza del potere: "Ho spiegato al presidente del Consiglio che il mio sciopero della fame non vuole costringerlo a fare le cose che non vorrebbe fare ma, al contrario, che voglio aiutarlo a fare le leggi che non riesce a fare».
A far saltare il linguaggio era la fortissima trama etica, la radicalizzazione di un disagio, la soluzione radicale a quel comune disagio, ma tutti sapevano che Pannella era un non violento che teorizzava la non violenza, che protestava imbavagliandosi o bevendo la propria orina in tv: "Senza giustizia preferisco morire». E mai insultava le persone, mai avrebbe proposto di processare uno per uno gli avversari politici e condannarli alla gogna dello sputo. Anzi, quando finirono sotto processo, li difese con la stessa passione con cui li aveva attaccati.
E infatti i primi a non sopportare Pannella erano quelli che meglio capivano la sostanza morale delle sue battaglie civili, ma vivevano come una ferita la radicalizzazione della coscienza. Ci si sente offesi dall’insulto di un familiare, dall’insolenza di un compagno che condivide la tua stessa grammatica etica, e anzi di quella grammatica è il professore, l’autorità, l’eroe combattente. Al sostanzialismo etico di Pannella non potevi contrapporre lo stile cerimonioso, la sobrietà del linguaggio, il tono basso della voce, i passi felpati della funzione e dunque "sradicalizzare» i radicali. Sarebbe stato un pessimo servizio agli italiani. Era infatti una purificazione e un arricchimento anche dell’italiano lasciar straripare il linguaggio di Pannella, fiume in piena e alluvione, piuttosto che cercare di canalizzarlo in rubinetti di ceramica.
"Sostengono», gli dissi qualche mese prima che morisse, "che sei diventato prolisso». "Torrenziale, ripetitivo, noioso... me lo dicevano i comunisti già nel 1970. E da anni dicono che sono morto». Ti trattano, da vivo, come fossi morto. "E sono pronti, da morto, a trattarmi da vivo». Pannella, che pure non era un italiano canterino, accennò una canzone: "Ma pecché, pecché ogne sera / penzo a Napule commera / penzo a Napule comm è. Questa canzone», mi confidò, "da un po’ di tempo mi torna nella mente, anche in sogno, come una febbre musicale». Malinconia? "È la durata, il passato che ci segue tutto intero, galoppa al nostro fianco: penso a com'era e penso a com’è». La durata di Bergson-Pannella significava che il grosso Mangia- fuoco logorroico è, nel flusso di coscienza, anche lo scheletrico Pinocchio imbavagliato, con il girocollo nero e il lunghissimo naso affilato... 
Significa che si può entrare e uscire in qualsiasi punto della vita di ciascuno e ritrovarlo sempre intero e sempre nuovo.
In pannellese le bretelle erano "come quelle del filosofo Siegfried Kracauer che legavano le idee più fantasiose alla terra più ferma». E le sue cravatte "antipartitocratiche, libertarie, nonviolente, antiproibizioniste, quando non stanno al mio collo dormono e fanno sogni allegri». La grammatica di Pannella era fatta di pugni sulle braccia, qualche pizzico, carezze sulla guancia. Con il Dalai Lama si toccarono per più di mezz’ora, "se fai qualcosa che non mi piace vengo a Roma e ti do un morso». Era la grammatica, Pannella.
Ma in quel 1986, che fu l’anno di Chernobyl e della diffusione della sua nube radioattiva, Pannella e Bordin decisero di sospendere i programmi di Radio Radicale e lasciare la parola agli ascoltatori, come rovesciare una città e portare la fogna sopra e i tetti sotto.
E gli italiani, invitati a registrare un messaggio di un minuto con le proprie opinioni sulla radio, produssero ottocento ore ininterrotte di bestemmie e insulti; un’altra nube radioattiva, di oscenità.
Se provaste a riascoltare oggi le registrazioni capireste subito che in quella maratona radiofonica di volgarità la parolaccia era libertà, faceva scandalo ma rassicurava la lingua, confermava la grammatica violandola, non pretendeva di farsi nuova cultura. Faceva parte, con gli errori, le storpiature, le forme dialettali, il procedere sincopato e mille altre "ricchezze» linguistiche, del sottosuolo italiano: "E giusto che questo tetro mondo a luci rosse», disse Pannella, "venga finalmente alla luce del sole. È una fotografia inquietante ma straordinariamente interessante dell’Italia. Ci sono tanti moralisti che borbottano, ma non c’è neanche un sociologo che si prenda la briga di studiarle quelle voci, e nemmeno un linguista che si metta ad analizzare la diversità delle parlate, le sfumature fonetiche, le inflessioni dialettali. Un enorme patrimonio di conoscenza, e loro lo sprecano così». Aveva ragione.

Con un canestro di parole nuove, calpestare nuove aiuole

sabato 16 maggio 2020

A ciascuno il suo

di Leonardo Sciascia
Sono in fase sciasciana, si è capito.
Giallo "politico", nel senso che a questo aggettivo attribuiva l'autore, considerandolo necessario attributo delle sue opere, in cui si trovano disseminate con dovizia/delizia le consuete citazioni letterarie (Manzoni, Voltaire, Giuseppe Antonio Borgese, Pirandello, Casanova, uno scrittore polacco che cita Camus). 
Il duplice omicidio iniziale diviene oggetto di curiosità intellettuale da parte di un professore di lettere, che inizia una sorta di indagine privata. Gli sarà fatale, dopo averne scoperto il movente nei traffici illeciti di un notabile, miscelati con la componente passionale.
E gli autori del crimine, ormai evidenti a tutti tranne che alla polizia, ne godono trionfali i frutti, nel silenzio appena disturbato dal chiacchericcio, mentre il povero professore giace in una solfatara abbandonata.
"Era un cretino", il giudizio su di lui con cui si chiude il libro 
Protagonista del romanzo è evidentemente la Sicilia, raccontata nei suoi peggiori pregiudizi e nelle peggiori consuetudini, descritti con amara ironia della prosa asciutta e perfetta di Sciascia.
Un terra abbandonata in cui lo stato è inutile simulacro in cui non crede nessuno (mercè i "secoli d'infamia che un popolo oppresso, un popolo sempre vinto, aveva fatto pesare sulla legge e su coloro che ne erano strumenti"), ma che i suoi stessi abitanti fanno di tutto per piegare al proprio interesse. Una terra in cui tutti sanno chi è il notabile "che corrompe, che intrallazza, che ruba", in cui "rimettere insieme la roba" è opera di carità, che "è fatta di tanti personaggi simpatici a cui bisognerebbe tagliare la testa".

La società parassita di massa

La società parassita di massa è l'involuzione che Luca Ricolfi teme della da lui descritta "società signorile di massa".
Mi spiego: nella società signorile il parassitismo di chi non lavora convive con un notevole benessere, che accomuna la minoranza dei produttori e la maggioranza dei non produttori. Nella società parassita di massa la maggioranza dei non lavoratori diventa schiacciante, la produzione (e l’export) sono affidati a un manipolo di imprese sopravvissute al lockdown e alle follie di stato, e il benessere diffuso scompare di colpo, come inghiottito dalla recessione e dai debiti. I nuovi parassiti non vivranno in una condizione signorile, ma in una condizione di dipendenza dalla mano pubblica, con un tenore di vita modesto, e un’attitudine a pretendere tutto dalla mano pubblica, con conseguente dilatazione della “mente servile”, per riprendere l’efficace definizione di Kenneth Minogue.
Speriamo non sia buon profeta.
A me, da quando è scoppiato questo casino, per la prima volta pesa non essere in quella minoranza dei produttori, con mille difetti come le altre categorie, ma che indiscutibilmente è il motore è la fonte del nostro benessere.


domenica 10 maggio 2020

C'è solo un Franco Baresi

Ha compiuto 60 anni, il capitano.
Ne aveva molti meno, in questa foto, la stessa che stava su uno dei miei quaderni, in terza elementare.
Allora era il capitano di una squadra povera e mediocre, due volte retrocessa e che due volte seguì in  B, in una società (quella di Farina) che non poteva nemmeno lontanamente sognare la grandezza che avrebbe vissuto con la nuova proprietà.
Per tutti i milanisti si creò così un legame unico, ben descritto dal coro a lui riservato, che titola questo post.
Quando l'avvento di Berlusconi cambiò il calcio italiano, fu il capitano grandissimo di quella squadra unica, in qualche classifica votata come il miglior club della storia del calcio; ma provate a chiedere ad un vero tifoso che abbia vissuto quei momenti, e tra campionissimi come Gullit, Maldini, Van Basten e Donadoni nessuno avrà dubbi nell'indicare il giocatore più amato, il capitano.
Tecnico, veloce, feroce marcatore, abile nell'impostazione, fenomenale nella scelta dell'intervento. Un difensore perfetto, completo nell'era che ha preceduto quella dei marcantoni che imperano nelle difese attuali. Capace di interpretare con ineguagliata classe il gioco a uomo e quello a zona, anche nella versione da "eretismo podistico", la sua bravura era tale da consentirgli di essere scelto, per la nazionale, anche fuori ruolo (a centrocampo, da Bearzot).
«Baresi II è dotato di uno stile unico, prepotente, imperioso, talora spietato. Si getta sul pallone come una belva: e se per un caso dannato non lo coglie, salvi il buon Dio chi ne è in possesso! Esce dopo un anticipo atteggiandosi a mosse di virile bellezza gladiatoria. Stacca bene, comanda meglio in regia: avanza in una sequenza di falcate non meno piacenti che energiche: avesse anche la legnata del gol, sarebbe il massimo mai visto sulla terra con il brasiliano Mauro, battitore libero del Santos e della nazionale brasiliana 1962.»
(Gianni Brera, la Repubblica, 3 gennaio 1992)
Brera poteva permettersi classifiche e tutto quanto voleva. E nelle molte, anche internazionali, che si trovano è tra i difensori secondo solo a Beckenbauer (ma contro il parere di Brera che lo preferisce). Per me è sterile discutere se fu più grande di altri fenomeni (Scirea, Cabrini, Maldini, Nesta, Cannavaro, per limitarsi agli italiani); credo però gli si debba riconoscere, ineguagliato, quel carisma che guidava i compagni e intimoriva gli avversari (e qualche guardalinee).
Ha rilasciato in occasione della ricorrenza due belle interviste in cui dichiara il suo amore per il Milan e dimostra i valori che lo hanno fatto grande, forse riassumibili nelle parole di MaldiniIl tuo modo di essere mi ha sempre impressionato e mi ha insegnato tanto: poche parole e tanti fatti.
Che bandiera.


giovedì 7 maggio 2020

Una storia semplice

di Leonardo Sciascia
Sì, semplice...
Romanzo breve ma di rara intensità, si presta ad una lettura come una semplice storia.
Un omicidio, le indagini, la scoperta del colpevole.
L'epilogo, che dà poi un senso ai molti richiami disseminati nel testo, capovolge l'interpretazione e  spiega a noi poveretti, come farebbe Isidro Parodi a Ginevro Montenegro (la pomposa dabbenaggine fatta persona), quel che era evidente ma non avevamo capito.   
Protagonista del libro non è il traffico, quell'altra piaga secolare della Sicilia, che Sciascia nemmeno nomina.
All'appello ci sono  il commissario, il procuratore, il questore, il prete, il colonnello dei carabinieri, il capostazione. Pochi altri li chiama per nome, forse perchè sono i veri uomini (direbbe Don Mariano). 
Man mano che si scoprono come preziose gemme alcune, quei pochi tra i riferimenti e le citazioni che è dato comprendere alla nostra povera intellettualità, si immaginano gli altri.
Quanti saranno?
Quante volte dovremo e vorremo rileggerlo per cercarli?

mercoledì 6 maggio 2020

L'Affaire Moro

Di Leonardo Sciascia
Nato come qualcosa di simile ad un instant book sul caso Moro, questo breve pamphlet è un tributo alla straordinaria intelligenza di Sciascia, che si applica alla lettura delle missive scritte dalla prigionia.
L'intuizione di base è provare quello che non tentarono le persone che avevano la possibilità di salvare Moro, cioè mettersi dal suo punto di vista e comprendere cosa potevano significare le sue parole, senza affidarsi al pregiudizio che portò i più a disconoscere la "paternità morale" delle lettere.
Lettere che non potevano essere scritte da uno statista,  altra parola chiave perchè dal momento in cui fu usata (inopinatamente, secondo Sciascia, per il quale Moro non fu un grande statista) divenne come una condanna. Lettere che si prestavano anche a quella interpretazione che nessuno tentò: sto cercando di prendere tempo, sono qui, trovatemi. E poteva essere trovato, pensa e scrive l'autore, anche nella relazione di minoranza che predispose quale parlamentare radicale, ideata per la lettura del pubblico e posta in appendice al libro.
Parte da Pasolini, Sciascia, dall'articolo sulla scomparsa sulle lucciole che era colpa idonea a far processare il Palazzo; dal suo giudizio (non condiviso) che Moro fosse il meno implicato di tutti; dalla sua attenzione alle parole e al discorso di Moro, che si ritrovano in un testo a suo modo filologico. 
E poi cita il Pierre Menard, autore del Chischiotte, intuizione letteraria che pare rivivere nella sua cronaca dei fatti che, scritta come cronaca, senza nulla mutare, diventa letteratura.
Come quando disvela il paradosso del complottismo generato dall'idea che l'agguato, in quanto era sembrato prova di efficienza, non poteva essere opera di italiani.
Nell'analisi delle parole e della scrittura di Moro Sciascia trova soprattutto motivi di critica alla posizione della fermezza, alla nettezza con cui fu formulata. Posizione e nettezza peraltro, lontanissime dal suo profilo intellettuale ed umano.

Più si interagisce, meno si dialoga

Non uso facebook. Ho un profilo twitter al quale mi connetto saltuariamente, ovviamente sul pc.
E' un social network molto interessante. Per persone pubbliche o che riescono a diventarlo è un modo in cui riuscire a raggiungere moltissime persone con un breve messaggio, veicolando quindi idee.
Lo trovo molto utile proprio perchè ti mette in contatto con tantissime idee. 
Tuttavia il meccanismo dei retweet e delle risposte, essenziale per moltiplicare la circolazione tramite i follower dei follower, genera diverse conseguenze cui prestare attenzione.
In primo luogo si rischia di ricevere notizie e commenti prevalentemente da persone che la pensano come noi, generando la fallace impressione che su un argomento vi siano attenzione o consenso generalizzati.  
L'immediatezza delle risposte, poi, non consente una giusta ponderazione, nè la verifica della notizia che si sta commentando. Se uno twitta che Higuain sta violando la quarantena, sono tentato di dargli subito del grandissimo bastardo, senza attendere quella mezzora in cui si chiarisce che sta partendo, autorizzato, per andare a trovare la madre malata. Se il commento l'ho fatto, resta, e la mia figura da pirla, che quarantanni fa i pochi astanti avrebbero scordato in dieci minuti, rimane stampata nel byte in forma perpetua e planetaria. 
A qualcuno la vanità fa brutti scherzi: se dici una cosa che ritieni molto intelligente e divertente, perchè il tuo amico che sicuramente l'ha letta non ha messo un like? Certe persone anche note, da come rispondono ai commenti, passano le giornate a leggere i feedback ai loro like.
La cosa che mi ha più colpito, tuttavia, l'ho realizzata un paio di giorni fa. Il fatto di poter rispondere ad un uomo pubblico ti dà l'illusione di rivolgerti a lui. Immagini di scrivere a Renzi che il suo discorso è stato davvero bello, oppure a Scanzi che questa se la poteva risparmiare. Ti stai rivolgendo proprio a loro, ma le possibilità che ti leggano e che gli interessi il tuo pensiero sono praticamente inesistenti. La tua idea finisce tra diecimila altre, in una statistica, mentre magari uno che neanche conosci ti dà del deficiente. Per chi si scrive dunque? Interessa a qualcuno il nostro pensiero?
Nel mentre interagiamo con una persona davanti a migliaia di altre, non stiamo in realtà dialogando con nessuno, se non con la nostra vanità.


lunedì 4 maggio 2020

I senzapannella

Nel giorno del suo novantesimo compleanno, onorandolo come fosse ancora tra noi, moltissimi hanno sentito la necessità di ricordare Marco Pannella.
La straordinaria personalità del rapporto che avevano con lui tutti quelli che lo hanno conosciuto, e anche quelli che lo consideravano un amico anche con una frequentazione solo radiofonica (ed era un vero amico, di quelli che ti insegnano, ti indicano la via, ti correggono; ti aiutano a ricordarti di pensare) è spiccata nei mille ricordi, inevitabilmente aperti dalla professione scontata ma autentica: manca a me, manca a tutti.
Novanta personalità hanno firmato una lettera, pubblicata anche da Manifesto e Fatto quotidiano, per augurarti "Buon compleanno". Si può ascoltarla recitata sulla radio, ricca dei riferimenti ai molti con cui dialogò Marco.
Il TG5 gli ha dedicato un servizio, breve ma pieno di cuore (e bisogna ringraziare Clemente Mimum per ricordarlo sempre, anche con due begli articoli nei giorni scorsi). Guido Del Turco in due minuti ha saputo condensare quasi tutto, partendo dagli ultimi giorni nella mansarda, mostrandolo con Enzo Tortora, davanti a delle carceri, e soprattutto riportando il suo ultimo messaggio politico: "Non mollate, perchè storicamente abbiamo già vinto".
Chissà se anche questa volta aveva, contro ogni evidenza, ragione lui. 
Tra i commenti, si distinguono quelli animati di stima da quelli densi d'amore.
Tra i primi Rolling Stone, che lo celebrò in un bellissimo articolo con DJ-AX, Mattia Feltri che ripubblica il coccodrillo del 2016,   e Guido Vitiello che lo ricorda irripetibile extraterrestre che ora è atterrato su chissà quale altro pianeta, a calpestare nuove aiuole. Poi  Taradash lo definisce il leader immaginario, illudendosi e illudendoci che chi vorrà ricostruire questo Paese dovrà fare i conti con lui. Francesco Rutelli ricorda che è stato l'uomo del garantismo e della politica per temi.  
Tra i secondi un bel pezzo di Valter Vecellio, il biografo che da sciasciano apre con un giudizio del grande scrittore e (qui lo si può scrivere) dirigente radicale: “E’ il solo uomo politico italiano che costantemente dimostri di avere il senso del diritto, della legge e della giustizia”. 
Ed è difficile restare indifferenti alle parole di Sergio D'Elia: "Sei stato l’uomo che ha salvato la mia vita, mi ha fatto rinascere, da una prima vita segnata dalla violenza a una seconda dedicata alla nonviolenza, al diritto, ai diritti umani.
Mi hai aiutato a capire - continua D’Elia - che non è vero che i fini giustificano i mezzi, che è vero semmai il contrario: che i fini più nobili, le idee giuste possono essere pregiudicati e distrutti da mezzi sbagliati usati per conseguirli, e uccidere le proprie idee è il delitto peggiore che si possa commettere.
Mi hai insegnato la nonviolenza, questa forza sottile e invisibile, eppure dura e durevole come un filo d’acciaio, religiosa nel senso etimologico del termine, che tiene insieme, lega indissolubilmente le persone anche se si trovano su fronti opposti. La nonviolenza è la forza della coscienza, del dialogo, dell’amore, la forza che ha connotato la tua vita, Marco, mai ‘contro’ qualcosa o qualcuno, ma sempre ‘per’ e ‘con’. Quanti violenti hai disarmato con la nonviolenza!”  
Ieri in una maratona lunga oltre dieci ore, alla Pannella, che ho ascoltato in diretta e parte recuperata poi, lo hanno ricordato in tantissimi. (Ex) Militanti e dirigenti, politici, uomini di cultura e di spettacolo.
Impossibile sintetizzare i migliori interventi, anche se è facile commuoversi al ricordo della Parachini, o alle parole quasi tenere di Bertinotti, alla nostalgia di Sofri. Riflettere ascoltare il tributo di Andrea Orlando, di Martelli, di Macaluso, di Paolo Mieli. Sorridere ascoltando da Stefania Craxi la lettera che Marco scrisse al padre. Capire da D'Elia, Della Vedova e Loquenzi come l'incontro con Pannella cambiò loro la vita. Ascoltare le parole "pesate"di Saviano.   
Per quasi tutti dobbiamo fuggire dalla tentazioni di chiederci cosa direbbe ora, Marco. Ma lo facciamo inevitabilmente, appunto perchè manca, e non è solo la nostalgia dei tempi andati.
E' che da quattro anni siamo, inevitabilmente, i Senzapannella.
Politici, giornalisti, uomini di grande cultura. Alla fine le parole migliori le ha trovate un artista,Vasco
Le idee radicali di Marco Pannella, per combinazione,erano molto simili alle mie, ai temi delle mie canzoni: abbattere il pregiudizio, sospendere il giudizio, tolleranza, anticlericalismo; e, cosa da non poco, antiproibizionismo. Finalmente un approccio moderno alla vita sociale, con l' uomo e i suoi diritti al centro di tutto; davanti anche le logiche di partito, di sinistra, di destra o di centro. Avevo praticamente il mio alter ego politico. Anticonformista, contro l' ipocrisia, un portatore di coscienza decisamente rock. Un idealista nel tentativo di "sbigottismo" e di cambiamento della società, società italiana. Un uomo politico onesto, che al posto dei salotti sceglie sempre la provocazione e la piazza; e che inoltre, ricordiamoci bene, ha sacrificato tutto il suo patrimonio personale. Quanti altri lo faranno? W Marco Pannella.

Con un canestro di parole nuove, calpestare nuove aiuole

venerdì 1 maggio 2020

1 maggio. Festa del lavoro o funerale del lavoro?

C'è voluto al solito il Presidente Mattarella, con un messaggio al solito misurato e capace di parlare ai cittadini nel linguaggio delle istituzioni, della Costituzione, per ricordare l'importanza del lavoro come fondamento della Repubblica.

Il lavoro è stato motore di crescita sociale, economica, nei diritti, in questi settantaquattro anni di Repubblica.
Perché il lavoro è condizione di libertà, di dignità e di autonomia per le persone. Consente a ciascuno di costruire il proprio futuro e di rendere l’intera comunità più intensamente unita.

Sorrido al pensiero che due giorni fa, con parole certamente meno ispirate, esprimevo sconsolato analogo concetto.
A partire dal lavoro si deve ridisegnare il modo di essere di un Paese maturo e forte come l’Italia.
La fabbrica, i luoghi di lavoro, hanno orientato e plasmato i modi di vivere nei nostri borghi e nelle nostre città, e l’opera stessa delle istituzioni chiamate ad assicurare la realizzazione della solidarietà politica, economica e sociale prevista dalla Costituzione.
I ceti produttivi, imprenditori e lavoratori sono il motore della nostra società, la fonte della ricchezza comune cui molti, troppi altri non contribuiscono in eguale misura, cui poi dobbiamo la libertà di cui godiamo (godevamo?).
Aiutarli, invece di penalizzarli, dargli mascherine, non multe, consentire loro di ripartire per se stessi e per noi, questo dovrebbe essere l'unico pensiero fisso di un governo.
Se non per convinzione, per furbizia, per mantenere la vacca che mungiamo e ci fa vivere
Se non si è nemmeno in grado di dare, come dice il Presidente, indicazioni ragionevoli e chiare, quella di oggi è stata non la festa, ma il funerale del lavoro.
Da esponente di un mondo privilegiato, posto fisso, stipendio sicuro, che in questi giorni ha realizzato che in fondo in fondo il proprio lavoro non è così importante, almeno nel breve periodo, ci sto male, a pensare alle persone che soffrono perchè non possono lavorare, mentre a me il 23 hanno accreditato bel bella la mensilità.
Mi trovo a camminare incazzato nel giardino, distogliendomi dalla lettura dei resoconti di tanto disastro, purtroppo più rari degli alfieri di un pensiero unico, capace di stendere manifesti contro chi critica un governo così capace o inappuntabile, di bollare come "scellerato o delinquente" chi (quorum ego) pensa che siano possibili misure diverse da quelle prese.
Che tristezza, che amarezza.