Ancora un anniversario, quattro anni dalla morte di Marco Pannella.
Sembrerà forse sproporzionato lo spazio che dedico a ricordarlo: ma mi permette di rammentare molte cose della persona che vorrei essere.
I ricordi quest'anno sono stati concentrati il giorno in cui avrebbe compiuto 90 anni, ma anche oggi ho letto le belle parole (le definirei autenticamente d'amore) di Sergio D'Elia:
Qual è il “segreto”? Come diceva Gandhi: incarnare il cambiamento che vuoi vedere nel mondo. Come faceva Marco: vivere nel modo e nel verso in cui vuoi vadano le cose. Io ho messo una vita a capirlo. Quando l’ho capito, è iniziata un’altra vita.
Qualche giorno fa mi è capitato di riascoltare, alla presentazione del suo "Sillabario dei malintesi", Francesco Merlo che leggeva il capitolo dedicato al pannellese, in un libro che si fonda sulle parole come chiave di interpretazione della realtà storica.
Anche come tributo alla sua penna, la migliore del giornalismo italiano probabilmente, lo riporto, permettendomi di evidenziare i passaggi chiave:
Anche Pannella non diceva parolacce, non ricorreva al turpiloquio. Usava un linguaggio violento che però smaterializzava la violenza, colpiva ma rendendo aereo il colpo, togliendogli ogni traccia di fisicità. La tensione morale era il suo codice.
Il linguaggio di Bossi e di Salvini, fatto di pallottole, musi di porco, lazzi omofobi e truculenze razziste, e quello di Grillo, fatto di "falliti», "zombie», "salma», "merda liquida»... sono sproloqui da bettola, da caserma o da avanspettacolo che magari disgustano, sicuramente hanno cambiato la lingua politica, qualche volta intimidiscono, ma non riescono mai a irritare, a colpire davvero, a ferire intellettualmente, perché mai le loro sgangheratezze sono solidali con la dimensione intellettuale della convivenza civile.
Al contrario, qualsiasi persona civile percepiva la sostanza intellettuale del ragionamento di Pannella, del suo codice, anche quando esagerava. Il degrado del rapporto tra l’informazione e il potere in Pannella era "la morte della libertà»; in Grillo è "siete finiti, siete lecca lecca, i vostri giornali chiuderanno; basta: i giornalisti non possono infestare Camera e Senato e muoversi a loro piacimento, ma vanno disciplinati in spazi appositi», e mentre la folla grillina li prende a spintoni lui sul palco li chiama "piranha» e li insolentisce. Pannella invece digiunava contro "il reato flagrante che lo Stato commette violando i diritti più elementari nelle carceri e il diritto alla normale durata dei processi». Per entrambi lo strapotere dei partiti era "regime». Ma Pannella denunciava questo regime - "il potere che offende, nega, uccide la stessa legalità che proclama e che ha il compito di servire» - in pannellese, che non era un linguaggio semplice perché "non c’è sulla terra una sola parola che lo sia». Diventava armoniosamente inarrestabile, percorso da sibili: "Quel Maroni è l’assassino degli immigrati che respinse in mare, glielo abbiamo detto e lui ha risposto che non gliene frega nulla». E poi fragorosi non-stop su argomenti come il sensus fidelium che un ironico sussurro trasformava in consensus fidelium. Il suo colloquiare diramava per rivoli inaspettati sino allo spiritualismo e all’energia: "Il non uccidere vale anche per la legittima difesa, perché se sei bravo devi ferire, invece che uccidere». Poi improvvisamente il lessico diventava quello immediato della libertà, più pericoloso di qualsiasi controprova e di qualsiasi violenza del potere: "Ho spiegato al presidente del Consiglio che il mio sciopero della fame non vuole costringerlo a fare le cose che non vorrebbe fare ma, al contrario, che voglio aiutarlo a fare le leggi che non riesce a fare».
A far saltare il linguaggio era la fortissima trama etica, la radicalizzazione di un disagio, la soluzione radicale a quel comune disagio, ma tutti sapevano che Pannella era un non violento che teorizzava la non violenza, che protestava imbavagliandosi o bevendo la propria orina in tv: "Senza giustizia preferisco morire». E mai insultava le persone, mai avrebbe proposto di processare uno per uno gli avversari politici e condannarli alla gogna dello sputo. Anzi, quando finirono sotto processo, li difese con la stessa passione con cui li aveva attaccati.
E infatti i primi a non sopportare Pannella erano quelli che meglio capivano la sostanza morale delle sue battaglie civili, ma vivevano come una ferita la radicalizzazione della coscienza. Ci si sente offesi dall’insulto di un familiare, dall’insolenza di un compagno che condivide la tua stessa grammatica etica, e anzi di quella grammatica è il professore, l’autorità, l’eroe combattente. Al sostanzialismo etico di Pannella non potevi contrapporre lo stile cerimonioso, la sobrietà del linguaggio, il tono basso della voce, i passi felpati della funzione e dunque "sradicalizzare» i radicali. Sarebbe stato un pessimo servizio agli italiani. Era infatti una purificazione e un arricchimento anche dell’italiano lasciar straripare il linguaggio di Pannella, fiume in piena e alluvione, piuttosto che cercare di canalizzarlo in rubinetti di ceramica.
"Sostengono», gli dissi qualche mese prima che morisse, "che sei diventato prolisso». "Torrenziale, ripetitivo, noioso... me lo dicevano i comunisti già nel 1970. E da anni dicono che sono morto». Ti trattano, da vivo, come fossi morto. "E sono pronti, da morto, a trattarmi da vivo». Pannella, che pure non era un italiano canterino, accennò una canzone: "Ma pecché, pecché ogne sera / penzo a Napule commera / penzo a Napule comm è. Questa canzone», mi confidò, "da un po’ di tempo mi torna nella mente, anche in sogno, come una febbre musicale». Malinconia? "È la durata, il passato che ci segue tutto intero, galoppa al nostro fianco: penso a com'era e penso a com’è». La durata di Bergson-Pannella significava che il grosso Mangia- fuoco logorroico è, nel flusso di coscienza, anche lo scheletrico Pinocchio imbavagliato, con il girocollo nero e il lunghissimo naso affilato...
Significa che si può entrare e uscire in qualsiasi punto della vita di ciascuno e ritrovarlo sempre intero e sempre nuovo.
In pannellese le bretelle erano "come quelle del filosofo Siegfried Kracauer che legavano le idee più fantasiose alla terra più ferma». E le sue cravatte "antipartitocratiche, libertarie, nonviolente, antiproibizioniste, quando non stanno al mio collo dormono e fanno sogni allegri». La grammatica di Pannella era fatta di pugni sulle braccia, qualche pizzico, carezze sulla guancia. Con il Dalai Lama si toccarono per più di mezz’ora, "se fai qualcosa che non mi piace vengo a Roma e ti do un morso». Era la grammatica, Pannella.
Ma in quel 1986, che fu l’anno di Chernobyl e della diffusione della sua nube radioattiva, Pannella e Bordin decisero di sospendere i programmi di Radio Radicale e lasciare la parola agli ascoltatori, come rovesciare una città e portare la fogna sopra e i tetti sotto.
E gli italiani, invitati a registrare un messaggio di un minuto con le proprie opinioni sulla radio, produssero ottocento ore ininterrotte di bestemmie e insulti; un’altra nube radioattiva, di oscenità.
Se provaste a riascoltare oggi le registrazioni capireste subito che in quella maratona radiofonica di volgarità la parolaccia era libertà, faceva scandalo ma rassicurava la lingua, confermava la grammatica violandola, non pretendeva di farsi nuova cultura. Faceva parte, con gli errori, le storpiature, le forme dialettali, il procedere sincopato e mille altre "ricchezze» linguistiche, del sottosuolo italiano: "E giusto che questo tetro mondo a luci rosse», disse Pannella, "venga finalmente alla luce del sole. È una fotografia inquietante ma straordinariamente interessante dell’Italia. Ci sono tanti moralisti che borbottano, ma non c’è neanche un sociologo che si prenda la briga di studiarle quelle voci, e nemmeno un linguista che si metta ad analizzare la diversità delle parlate, le sfumature fonetiche, le inflessioni dialettali. Un enorme patrimonio di conoscenza, e loro lo sprecano così». Aveva ragione.
Con un canestro di parole nuove, calpestare nuove aiuole