Ancora Ricolfi, su un argomento ottimo in periodo pre-elettorale, già affrontato nel precedente Perchè siamo antipatici. La sinistra e il complesso dei migliori ecc. ecc.
Provo a richiamare lo svilupparsi del suo discorso quale esercizio per meglio comprenderlo
Il testo si compone di tre parti. Nella prima l'analisi è incentrata sulle definizioni di destra e sinistra, in particolare ricordando che quelle di Bobbio, valorialmente orientata in maniera da attribuire libertà ed eguaglianza ad una delle due parti (la sua) ha probabilmente influenzato la nascita del complesso. L'autore preferisce alla quadripartizione bobbiana la tripartizione di Hayek: i liberali si oppongono ai conservatori quanto i socialisti, solo che lo fanno nel nome della libertà più che su quello dell'eguaglianza.
(Forse attribuendogli eccessivo valore) Ricolfi ritiene Destra e sinistra, un testo fortunato quanto infelice. Un testo fortunato perché è diventato luogo teorico in cui una sinistra scioccata dal successo del berlusconismo ha potuto cercare conferme, ritrovare autostima, e soprattutto darsi una spiegazione rassicurante delle sconfitte. Un testo infelice perché quello schema teorico, in cui la sinistra è il bene e la destra è il nulla, ha contribuito ad avvelenare la lotta politica in Italia.
Nella seconda parte si ripercorre il tratto di storia che dai «gloriosi trent’anni» di edificazione dello stato sociale (1945-1975), attraverso le rivoluzioni liberali e liberiste degli anni Ottanta e Novanta, ci ha portati alla crisi del 2007-2016, da cui non tutte le economie avanzate sono ancora uscite.
Con la consueta chiarezza priva di fronzoli Ricolfi spiega.
Nel primo trentennio del dopoguerra la crescita globale (ma è meglio dire: dei Paesi avanzati) ha permesso l'affermarsi del welfare e ha creato le premesse per una costante aspettiva di miglioramento delle condizioni economiche sociali, sorretto dalla crescita.
Le crisi degli anni settanta, dovute ad un mix di fattori interni (la "crisi fiscale" ed il suo impatto sugli investimenti) ed esterni, non ha in prima battuta influenzato tali aspettative, con la conseguenza che le politiche fiscali sono state aumentate con un mix di pressione fiscale, deficit e riduzione degli investimenti pubblici.
La fiammata liberista degli anni 80, fondata su deregulation e finanziariazione dell'economica, ha dato temporaneo respiro alle principali economie mondiali.
La momentanea crescita si è arrestata con la crisi degli anni 90, dopo la quale le economie avanzate, con alcune eccezioni, hanno sostanzialmente arrestato la crescita rispetto a quella dei paesi in via di sviluppo. Nel periodo, che va dai primi anni Novanta a oggi, non solo si intensifica il processo di convergenza fra le economie di tutto il mondo ed i paesi avanzati perdono del tutto il testimone della crescita. L'aspetto non sempre colto con la necessaria lucidità è che le diseguaglianze fra paesi sono crollate, e anche le diseguaglianze complessive, ovvero le differenze di reddito fra tutti i cittadini del mondo trattato come un unico grande paese, sono diminuite ininterrottamente.
Perchè? Citando tra gli altri Tremonti Ricolfi spiega che l'entusiasmo per la globalizzazione sotto le insegne dell'economia di mercato ha fatto dimenticare la necessità di politiche che ne graduassero la rapidità e che avessero la capacità di imporre regole e limiti ai protagonisti della globalizzazione, in particolare sulla lealtà della concorrenza negli scambi di beni e servizi reali, e sulla disciplina dei movimenti di capitale nei flussi finanziari.
Purtroppo (per noi) la globalizzazione non si rivela affatto un gioco a somma positiva, con benefici per tutti e costi per nessuno. La globalizzazione si mostra invece per quello che è, un meccanismo che favorisce l’uscita dalla povertà della maggior parte delle economie arretrate, ma spiazza la maggior parte di quelle avanzate, e si rivela semplicemente disastroso per quei paesi che, come l’Italia, non solo sono entrati da tempo in un’era di opulenza e «indisponibilità ai sacrifici», ma hanno scordato di modernizzare l’economia, ossia di fare l’unica cosa con cui un paese post-industriale può resistere al vento della competizione mondiale.
Dopo la crisi del 2008, il mondo si è diviso quindi fra i Paesi che non vi sono mai entrati e Paesi che non vi sono mai usciti, provocando al solito le opposte ricette keynesiane e liberiste quali exit strategy.
Comprensibile lo spiazzamento della sinistra: dopo essersi convertita al mercato in era di clintonismo, con la crisi non sa risolversi se tornare all'antico
Devo riportare per intero alcuni passaggi:
La globalizzazione ha prodotto una spettacolare riduzione della disuguaglianza fra paesi, ma questa uscita dalla povertà di alcuni miliardi di persone ha messo in ginocchio le economie avanzate. Senza esportazioni l’occupazione non cresce, ma senza competitività non crescono le esportazioni. E competitività significa investimenti, ma anche sacrifici, più impegno, più flessibilità. Non tutti i paesi sono pronti alla sfida. Non tutti i paesi vogliono raccoglierla. Non tutti i paesi hanno capito che un tempo è finito, e come prima non si può più andare avanti. Per questo la torta cresce sempre di meno, e in alcuni paesi – fra cui l’Italia – ha smesso di crescere, già prima della crisi.
È anche di qui che nascono i problemi della sinistra. La sinistra riformista non può essere contro la globalizzazione, non solo perché l’ha mitizzata negli anni Novanta, ma perché – a dispetto di tutti i suoi limiti e le sue storture – essa resta il più spettacolare meccanismo egualitario che l’umanità abbia conosciuto. La globalizzazione, nella misura in cui è essenzialmente un processo di caduta delle barriere, che progressivamente accorcia tutte le distanze fra paesi e fra persone, entra automaticamente in sintonia con tutti i più grandi sogni della sinistra: il cosmopolitismo, l’apertura delle frontiere, la circolazione delle idee (internet), l’uscita dei paesi arretrati dalla povertà, la diffusione della democrazia, l’avanzata dei diritti umani (anche a costo di usare la forza).
Oltre a non comprendere appieno questo meccanismo egualitario, la sinistra non riesce a rapportarsi con la fine delle "aspettative crescenti", con il problema di un mondo in cui vi è crescita ma non per tutti, alcuni arricchiscono altri impoveriscono.
L'incomprensione appare trasversale: Fiammata liberista e globalizzazione hanno profondamente trasformato il mondo ma, curiosamente, hanno provocato un’unica importante conseguenza nell’universo politico delle società avanzate: la separazione, a destra come a sinistra, fra le forze dell’apertura e dell’innovazione, favorevoli al mercato e alla globalizzazione, e le forze della chiusura e della conservazione, più o meno avverse a uno o più aspetti della globalizzazione
Del resto tre grandi mutamenti – deindustrializzazione, apertura delle frontiere, stagnazione economica – hanno alterato radicalmente le condizioni in cui si svolge il conflitto politico, togliendo alla sinistra la classe operaia, alla destra la fede nel libero mercato. In particolare che si consuma la parabola politica della sinistra, una parabola che la vede prima espandere il suo consenso verso i ceti medi, e poi perdere irrimediabilmente il contatto con i ceti popolari.
La terza parte del libro fornisce una semplice spiegazione dell’avanzata dei partiti populisti in Europa, del perchè, quasi ovunque nelle società avanzate, la sinistra non sia in grado di fornire una risposta e uno sbocco alla rivolta dei popoli. Se il populismo sta sfondando in Occidente è perché i partiti populisti, sbrigativamente classificati «di destra» o «di sinistra» a seconda che osteggino la circolazione delle persone o quella delle merci, prendono sul serio la domanda di protezione che sale dai ceti svantaggiati, mentre la cultura della sinistra ufficiale, imbottita di politicamente corretto e prigioniera del totem dell’accoglienza, è strutturalmente incapace di riconoscere la legittimità di quella domanda. Da questo punto di vista la rivolta dei popoli non è solo una reazione ai danni provocati dall’impetuosa unificazione del mondo, ma è anche una reazione agli eccessi del politicamente corretto. Esso è talora follemente corretto; già indigesto in tempi di crescita risulta insopportabile in tempi in cui i miglioramenti di taluni comportano il peggioramento di talatri, in una società a somma zero che ripropone il secolare modello di società fredda, ed in cui la disabitudine alla competizione genera invidia e rabbia sociale negli sconfitti.
È questo l’humus permanente su cui crescono i movimenti populisti. Perché l’insicurezza genera richiesta di protezione. E la società a somma zero secerne insicurezza.
A questo punto Ricolfi richiama una delle definizioni di "popolo", corrispondente all'aggettivo popolare: gli strati bassi della popolazione, caratterizzati da un capitale economico, sociale e culturale sensibilmente inferiore a quello medio.
Il popolo in questa seconda accezione è stato, da
quando esiste la sinistra, il soggetto nel nome del quale i partiti
progressisti hanno condotto le loro battaglie fondamentali, sia nelle fabbriche
(a tutela degli operai), sia nelle campagne (a tutela di braccianti e
contadini). Battaglie che hanno per lo più avuto due bersagli, uno evidente,
l’altro un po’ meno. Il bersaglio evidente sono state le élite, variamente
designate padroni, capitalisti, borghesia, classe dominante. Il bersaglio meno
evidente sono stati la piccola borghesia autonoma e i ceti medi, visti come
potenziali e pericolosi alleati delle élite, e al tempo stesso come oggetto delle politiche redistributive.
Complice l'incomprensione da parte della sinistra delle aspettative e del bisogno di protezione del popolo, questo preferisce i partiti populisti ai partiti della sinistra riformista, che pretendono di esserne i naturali rappresentanti.
A ciò si aggiunge l'eccesso del politicamente corretto, di cui Ricolfi descrive la nascita e gli effetti anche di scavare un solco fra mondi incomunicanti: l’adesione al politicamente corretto è divenuta, poco per volta, un segno di distinzione e di superiorità a disposizione di chiunque volesse esibirlo.
Una forma sottile di razzismo, «razzismo etico» secondo l’efficace espressione coniata da Marcello Veneziani, si è insinuato gradualmente negli abitanti del mondo di sopra, naturalmente attratti dalle istanze del politicamente corretto, scavando un abisso con gli abitanti del mondo di sotto, istintivamente indifferenti o ostili a esso.
Quella che si sta delineando, dopo lo tsunami della globalizzazione e lo shock della crisi, è una nuova frattura politica fondamentale, che non sostituisce completamente la diade destra-sinistra ma con essa interferisce e a essa si intreccia: la dicotomia fra forze dell’apertura e forze della chiusura.
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