E' un po' difficile riassumere il contributo di grande intelligenza di questo articolo di Biagio De Giovanni sul
Mattino di qualche giorno fa (e perchè poi riassumerlo? ci sono cose che
possono essere comprese solo se meditate e lette con attenzione, tempo e
fatica; alla faccia dei social e della negazione della complessità; e degli
"Immediati" di cui parla Rutelli, sì lui, in un libro che forse varrà
la pena di comprare.)
Tocca riportare le sue parole già in precedenza mirabili allorchè si
chiedevano:
“Che cosa significa oggi, per un movimento
politico, essere eversivo? Per definirlo tale non aspettiamoci la ripetizione
della marcia su Roma del 1922 o gruppi di energumeni con i manganelli nelle
strade”. Ma l’eversione esiste, anche nella parvenza del gioco democratico: “Eversivo,
in una situazione democratica, è chi immagina se stesso, il movimento di cui è
parte, come protagonista di una palingenesi. Il protagonista dice: opero in una
situazione lontana da questo incomposto magma corruttivo che mi sta dinanzi…
guardo tutti da una postazione dalla quale tutti gli ‘altri’ sono coinvolti…
Tutto questo va superato, distrutto”.
Ideale per questa eversione sono “le nuove forme della comunicazione”.
“Eversiva può diventare, sta diventando un’opinione pubblica che si forma così,
con questi canoni, con la ‘violenza’ di una sola parola che vale
metaforicamente, s’intende, un colpo di pistola”.
Toh, ma allora io quando avevo fra il serio ed il faceto buttato lì che il
M5S è un movimento tecnicamente fascista non l'avevo sparata così grossa...
Impossibile quindi, anzi vietato, riassumere. Riporto con mie
sottolineature e grassetto, per mero esercizio:
"Quello che chiamiamo populismo ha già avvelenato il clima della
nostra democrazia parlo solo di noi - e prevedo che altro veleno sarà
inoculato, nella caduta verticale delle culture politiche che danno
consistenza a una nazione. Nelle vene dei populisti, lo sappiamo, scorre il
sangue anti-élite, con un sentimento che individua nella politica la casta per
eccellenza, che va odiata, detronizzata, sbeffeggiata. Tutto ciò che
riguarda la casta - e già il termine usato è sintomo decisivo- è
prevaricazione, sistema di privilegi da annientare, da far odiare, odio da far
covare nel rancore sociale, ormai perfino registrato in Italia, dagli istituti
di ricerca, come dominante nello spirito pubblico. Ecco già un primo punto,
ma da qui tanti altri ne nascono, e bisogna dare a essi i nomi
giusti e incominciare a offrire le controargometazioni, ad evitare che
l'espansione a macchia d'olio di questo stato d'animo metta in ginocchio
l'Italia, come già sta avvenendo, come potrebbe avvenire in un futuro
vicino.
Un ragionamento che bisogna avviare e che bisognerà
tener fermo anche per contribuire a restituire alle classi dirigenti il senso
del loro ruolo, chiamarle a un miglioramento delle loro prestazioni per una
vera e propria resistenza che si deve preparare. È necessario aprire
una lotta culturale e politica che sarà lunga e aspra, e che ha per oggetto
nientemeno, guardato pure oltre i nostri confini, il destino delle democrazie
liberali e rappresentative.
Quale è l'altro nome nemico, esorcizzato, rifiutato,
reso mostruoso, contro il quale il populismo si batte, convinto di aver trovato
la chiave d'oro del proprio successo? È il potere che dovunque si manifesti va
negato, rigettato, sterilizzato, neutralizzato, demonizzato, in nome del
popolo. Ma questo ad opera di chi, e in vista di che? Da chi parla in nome di
una pretesa società di uguali, nei quali riposa il giudizio di Dio; in vista di un
auspicato ugualitarismo meccanico, quello che la cultura liberal-democratica ha
sempre negato e contro il quale Benedetto Croce elevava la sua critica ironica
e sferzante, giudicando l'egualitarismo, il democratismo il vero nemico della
democrazia e del liberalismo «nel suo far pesare la massa, il, popolo, la plebe
nei consigli e nella deliberazione politica»: oggi, il popolo
mediatizzato virtualizzato retizzato, e l'individuo ridotto, nella sua realtà
profonda, ad atomo solitario.
Dunque, ciò che diventa centrale, nel populismo, è la
lotta contro il potere dovunque si manifesti nelle relazioni umane e politiche.
Un'incultura drammatica rischia di invadere la coscienza dell'Italia, e mi fermo a nominare
l'Italia per il carattere particolarmente virulento ed esteso che da noi ha
assunto quella che viene chiamata lotta contro il potere, sterilizzazione
completa del suo ruolo: attenzione, con il potere arrivano i corrotti, i nemici
del popolo, appena il suo ruolo si disegna all'orizzonte, e la politica ne fa
le spese sotto i colpi dell'antipolitica. Le distinzioni necessarie e
anche critiche si disperdono nel vociare incolto che ne attacca la dimensione
generale, spesso in un'orgia giustizialista che mescola tutto, tutto parifica
con furia distruttiva, il potere diventa per sua natura abuso. In
questa lotta anzitutto culturale si deve riprendere il problema dal suo capo:
far comprendere che il potere è il centro di energia da cui nasce la storia
degli uomini, l'onda che la attraversa, e nella sua grande forza organizza la
vita comune. Il potere, nella sua potenza creativa, è la profonda
volontà di applicare la ragione al disordine della vita, è un centro di
energia, di pensiero e di volontà, una esigenza che suscita tutta una vita, una
vasta onda di vita negli animi umani. Una democrazia che immagina di
poter sterilizzare il potere lotta contro il proprio valore primario, quello
che garantisce la continuità della vita. Una democrazia che
immagina questo diventa da un lato, e ufficialmente, povero contenitore di una
procedura svuotata, oltre la quale, però, un vero nuovo potere domina la scena,
negando di esser potere, che è la cosa peggiore che esso possa fare, perché
proprio così esso si sottrae alla critica, si colloca oltre di questa, in un
luogo incontaminato dove prevalgono l'innocenza, la bontà, il disinteresse. Lotta
dei buoni contro i cattivi, i manichei in azione, partecipi di quella
religione che divideva il mondo in bene e male, e che il cristianesimo combatté
con tutte le sue energie. Tutto questo, nelle nostre società, fa esplodere il
giustizialismo mediatico dove, con il plauso di tanti, si celebrano processi
che riguardano anche relazioni tra esseri umani, uomo e donna, dove il potere
(reciprocamente) può giocare un suo ruolo in infinite sfumature prima di
diventare, come può accadere ed è accaduto, opera del demonio che alberga in
ogni uomo e soprattutto nel maschio.
Vuol significare, questo, negare la possibilità della
critica? Chi parla così vuol solo confondere le acque, e nella confusione generale
far prevalere la propria incultura, il neo-primitivismo che si disegna vincente
all'orizzonte. La critica è non solo possibile, ma necessaria, perché
il potere può, certo, abusare di sé e quante volte lo fa!- ma la critica è
possibile, efficace, alla sola condizione di non avere come premessa e
condizione prioritaria la distruzione del principio che critica. Se
si accoglie la forza etica, politica, istituzionale, rappresentativa del
potere, allora la critica ne arricchisce la storia, contribuisce a
organizzare culture e gruppi umani nelle società civili, coglie in fallo chi in
fallo va colto. Non però come esponente di un luogo di abusi, che
dunque va ridicolizzato e condannato in diretta tv, aizzando i rancori e
rendendo barbara una società, ma come quel luogo che, in un momento
difficilissimo della storia del mondo, quando tante cose possono andare in
rovina, deve caricare su di sé la possibilità di un nuovo ordine. Il
quale richiede professionalità, competenza, cultura, ragionevolezza, dialogo,
riconoscimento, e vorrei dire il linguaggio complesso dei congiuntivi e dei
condizionali, proprio l'opposto di tutto ciò che il populismo nostrano intende
far valere, nuovo tribunale del giustizialismo di oggi, dove si usa
l'indicativo assertivo, l'unico verbo conosciuto.
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