martedì 30 gennaio 2018

Sinistra e popolo

di Luca Ricolfi


Ancora Ricolfi, su un argomento ottimo in periodo pre-elettorale, già affrontato nel precedente Perchè siamo antipatici. La sinistra e il complesso dei migliori ecc. ecc.
Provo a richiamare lo svilupparsi del suo discorso quale esercizio per meglio comprenderlo
Il testo si compone di tre parti. Nella prima l'analisi è incentrata sulle definizioni di destra e sinistra, in particolare ricordando che quelle di Bobbio, valorialmente orientata in maniera da attribuire libertà ed eguaglianza ad una delle due parti (la sua) ha probabilmente influenzato la nascita del complesso. L'autore preferisce alla quadripartizione bobbiana la tripartizione di Hayek: i liberali si oppongono ai conservatori quanto i socialisti, solo che lo fanno nel nome della libertà più che su quello dell'eguaglianza.
(Forse attribuendogli eccessivo valore) Ricolfi ritiene Destra e sinistra, un testo fortunato quanto infelice. Un testo fortunato perché è diventato luogo teorico in cui una sinistra scioccata dal successo del berlusconismo ha potuto cercare conferme, ritrovare autostima, e soprattutto darsi una spiegazione rassicurante delle sconfitte. Un testo infelice perché quello schema teorico, in cui la sinistra è il bene e la destra è il nulla, ha contribuito ad avvelenare la lotta politica in Italia.
Nella seconda parte si ripercorre il tratto di storia che dai «gloriosi trent’anni» di edificazione dello stato sociale (1945-1975), attraverso le rivoluzioni liberali e liberiste degli anni Ottanta e Novanta, ci ha portati alla crisi del 2007-2016, da cui non tutte le economie avanzate sono ancora uscite.
Con la consueta chiarezza priva di fronzoli Ricolfi spiega.
Nel primo trentennio del dopoguerra la crescita globale (ma è meglio dire: dei Paesi avanzati) ha permesso l'affermarsi del welfare e ha creato le premesse per una costante aspettiva di miglioramento delle condizioni economiche sociali, sorretto dalla crescita. 
Le crisi degli anni settanta, dovute ad un mix di fattori interni (la "crisi fiscale" ed il suo impatto sugli investimenti) ed esterni, non ha in prima battuta influenzato tali aspettative, con la conseguenza che le politiche fiscali sono state aumentate con un mix di pressione fiscale, deficit e riduzione degli investimenti pubblici.
La fiammata liberista degli anni 80, fondata su deregulation e finanziariazione dell'economica, ha dato temporaneo respiro alle principali economie mondiali. 
La momentanea crescita si è arrestata con la crisi degli anni 90, dopo la quale le economie avanzate, con alcune eccezioni, hanno sostanzialmente arrestato la crescita rispetto a quella dei paesi in via di sviluppo. Nel periodo, che va dai primi anni Novanta a oggi, non solo si intensifica il processo di convergenza fra le economie di tutto il mondo ed i paesi avanzati perdono del tutto il testimone della crescita. L'aspetto non sempre colto con la necessaria lucidità è che le diseguaglianze fra paesi sono crollate, e anche le diseguaglianze complessive, ovvero le differenze di reddito fra tutti i cittadini del mondo trattato come un unico grande paese, sono diminuite ininterrottamente.
Perchè? Citando tra gli altri Tremonti Ricolfi spiega che l'entusiasmo per la globalizzazione sotto le insegne dell'economia di mercato ha fatto dimenticare la necessità di politiche che ne graduassero la rapidità e che avessero la capacità di imporre regole e limiti ai protagonisti della globalizzazione, in particolare sulla lealtà della concorrenza negli scambi di beni e servizi reali, e sulla disciplina dei movimenti di capitale nei flussi finanziari. 
 Purtroppo (per noi) la globalizzazione non si rivela affatto un gioco a somma positiva, con benefici per tutti e costi per nessuno. La globalizzazione si mostra invece per quello che è, un meccanismo che favorisce l’uscita dalla povertà della maggior parte delle economie arretrate, ma spiazza la maggior parte di quelle avanzate, e si rivela semplicemente disastroso per quei paesi che, come l’Italia, non solo sono entrati da tempo in un’era di opulenza e «indisponibilità ai sacrifici», ma hanno scordato di modernizzare l’economia, ossia di fare l’unica cosa con cui un paese post-industriale può resistere al vento della competizione mondiale.
Dopo la crisi del 2008, il mondo si è diviso quindi fra i Paesi che non vi sono mai entrati e Paesi che non vi sono mai usciti, provocando al solito le opposte ricette keynesiane e liberiste quali exit strategy.
Comprensibile lo spiazzamento della sinistra: dopo essersi convertita al mercato in era di clintonismo, con la crisi non sa risolversi se tornare all'antico 
Devo riportare per intero alcuni passaggi:
La globalizzazione ha prodotto una spettacolare riduzione della disuguaglianza fra paesi, ma questa uscita dalla povertà di alcuni miliardi di persone ha messo in ginocchio le economie avanzate. Senza esportazioni l’occupazione non cresce, ma senza competitività non crescono le esportazioni. E competitività significa investimenti, ma anche sacrifici, più impegno, più flessibilità. Non tutti i paesi sono pronti alla sfida. Non tutti i paesi vogliono raccoglierla. Non tutti i paesi hanno capito che un tempo è finito, e come prima non si può più andare avanti. Per questo la torta cresce sempre di meno, e in alcuni paesi – fra cui l’Italia – ha smesso di crescere, già prima della crisi.
È anche di qui che nascono i problemi della sinistra. La sinistra riformista non può essere contro la globalizzazione, non solo perché l’ha mitizzata negli anni Novanta, ma perché – a dispetto di tutti i suoi limiti e le sue storture – essa resta il più spettacolare meccanismo egualitario che l’umanità abbia conosciuto. La globalizzazione, nella misura in cui è essenzialmente un processo di caduta delle barriere, che progressivamente accorcia tutte le distanze fra paesi e fra persone, entra automaticamente in sintonia con tutti i più grandi sogni della sinistra: il cosmopolitismo, l’apertura delle frontiere, la circolazione delle idee (internet), l’uscita dei paesi arretrati dalla povertà, la diffusione della democrazia, l’avanzata dei diritti umani (anche a costo di usare la forza).
Oltre a non comprendere appieno questo meccanismo egualitario, la sinistra non riesce a rapportarsi con la fine delle "aspettative crescenti", con il problema di un mondo in cui vi è crescita ma non per tutti, alcuni arricchiscono altri impoveriscono.
L'incomprensione appare trasversale: Fiammata liberista e globalizzazione hanno profondamente trasformato il mondo ma, curiosamente, hanno provocato un’unica importante conseguenza nell’universo politico delle società avanzate: la separazione, a destra come a sinistra, fra le forze dell’apertura e dell’innovazione, favorevoli al mercato e alla globalizzazione, e le forze della chiusura e della conservazione, più o meno avverse a uno o più aspetti della globalizzazione
Del resto tre grandi mutamenti – deindustrializzazione, apertura delle frontiere, stagnazione economica – hanno alterato radicalmente le condizioni in cui si svolge il conflitto politico, togliendo alla sinistra la classe operaia, alla destra la fede nel libero mercatoIn particolare che si consuma la parabola politica della sinistra, una parabola che la vede prima espandere il suo consenso verso i ceti medi, e poi perdere irrimediabilmente il contatto con i ceti popolari.
La terza parte del libro fornisce una semplice spiegazione dell’avanzata dei partiti populisti in Europa, del perchè, quasi ovunque nelle società avanzate, la sinistra non sia in grado di fornire una risposta e uno sbocco alla rivolta dei popoli. Se il populismo sta sfondando in Occidente è perché i partiti populisti, sbrigativamente classificati «di destra» o «di sinistra» a seconda che osteggino la circolazione delle persone o quella delle merci, prendono sul serio la domanda di protezione che sale dai ceti svantaggiati, mentre la cultura della sinistra ufficiale, imbottita di politicamente corretto e prigioniera del totem dell’accoglienza, è strutturalmente incapace di riconoscere la legittimità di quella domanda. Da questo punto di vista la rivolta dei popoli non è solo una reazione ai danni provocati dall’impetuosa unificazione del mondo, ma è anche una reazione agli eccessi del politicamente corretto. Esso è talora follemente corretto; già indigesto in tempi di crescita risulta insopportabile in tempi in cui i miglioramenti di taluni comportano il peggioramento di talatri, in una società a somma zero che ripropone il secolare modello di società fredda, ed in cui la disabitudine alla competizione genera invidia e rabbia sociale negli sconfitti. 
È questo l’humus permanente su cui crescono i movimenti populisti. Perché l’insicurezza genera richiesta di protezione. E la società a somma zero secerne insicurezza.
A questo punto Ricolfi richiama una delle definizioni di "popolo", corrispondente all'aggettivo popolare: gli strati bassi della popolazione, caratterizzati da un capitale economico, sociale e culturale sensibilmente inferiore a quello medio. 
Il popolo in questa seconda accezione è stato, da quando esiste la sinistra, il soggetto nel nome del quale i partiti progressisti hanno condotto le loro battaglie fondamentali, sia nelle fabbriche (a tutela degli operai), sia nelle campagne (a tutela di braccianti e contadini). Battaglie che hanno per lo più avuto due bersagli, uno evidente, l’altro un po’ meno. Il bersaglio evidente sono state le élite, variamente designate padroni, capitalisti, borghesia, classe dominante. Il bersaglio meno evidente sono stati la piccola borghesia autonoma e i ceti medi, visti come potenziali e pericolosi alleati delle élite, e al tempo stesso come oggetto delle politiche redistributive.
Complice l'incomprensione da parte della sinistra delle aspettative e del bisogno di protezione del popolo, questo preferisce i partiti populisti ai partiti della sinistra riformista, che pretendono di esserne i naturali rappresentanti.
A ciò si aggiunge l'eccesso del politicamente corretto, di cui Ricolfi descrive la nascita e gli effetti anche di scavare un solco fra mondi incomunicanti: l’adesione al politicamente corretto è divenuta, poco per volta, un segno di distinzione e di superiorità a disposizione di chiunque volesse esibirlo.
Una forma sottile di razzismo, «razzismo etico» secondo l’efficace espressione coniata da Marcello Veneziani, si è insinuato gradualmente negli abitanti del mondo di sopra, naturalmente attratti dalle istanze del politicamente corretto, scavando un abisso con gli abitanti del mondo di sotto, istintivamente indifferenti o ostili a esso.
Quella che si sta delineando, dopo lo tsunami della globalizzazione e lo shock della crisi, è una nuova frattura politica fondamentale, che non sostituisce completamente la diade destra-sinistra ma con essa interferisce e a essa si intreccia: la dicotomia fra forze dell’apertura e forze della chiusura.

sabato 27 gennaio 2018

Contro i papà. Come noi italiani abbiamo rovinato i nostri figli

di Antonio Polito

La vevi dite jo
Non senza compiacimento ho terminato la lettura di questo libercolo, trovandovi ottimamente scritte alcune delle idee che avevo provato a sintetizzare qui: chiudendo il post con le stesse parole che, al passato, Polito usa come sottotitolo.

Il libro si compone in due parti, la seconda della quale si occupa maggiormente del lavoro dei giovani, del sistema formativo - universitario, e quindi è meno attinente al tema che mi interessa, che poi è sempre il sottotitollo.

L'apertura dichiara subito la tesi:
Questo è un libro contro i padri. Non contro i padri che abbiamo avuto, ma contro i papà (e i papi e i papini e i paponi) che siamo stati e siamo. I padri che abbiamo avuto, come il mio, hanno fatto il loro. Non che ci fossero molto, né che noi gli abbiamo permesso di esserci tanto, nelle nostre vite: non disponevano di tutto il tempo libero di cui disponiamo noi, all’epoca loro il pane era nero e la fatica tanta. Non dico dunque che ci aiutarono con il loro esempio, con i loro consigli, con la loro guida, tranne in rari ed encomiabili casi. Ma si prestarono a fare ciò che da mondo è mondo un padre deve fare: opporsi al figlio. Diventarne la controparte. Incarnare uno stile di vita diverso. Impersonare il passato. Consentire che il figlio gli si rivolti contro, e così facendo conquisti la sua emancipazione. Perché se non hai un padre da cui allontanarti, non c’è modo di avvicinarti all’età adulta e al futuro. Io me ne sono accorto perfino fisicamente quando mio padre se n’è andato: era stato proprio sfidando la sua autorità morale, ribellandomi a quel costante richiamo al senso del dovere ora scomparso insieme con lui che ho costruito l’individuo che sono.
Diversamente noi (mi associo alla generazione di Polito, che pure ha ventanni più di me) abbandoniamo il ruolo di padri per fare i fratelli, i "sindacalisti dei nostri figli" (stessa espressione usata da Ricolfi da Marzullo), arrivando a capovolgere il motto di Jobs facendolo diventare: "Restate sazi, restate conformisti".
Il familismo amorale, descrizione della base morale di una società arretrata, ha protratto i suoi effetti in una continua ricerca di protezione di figli cui si cerca di rendere tutto facile in nome di pretesi diritti per tutti, in nome di un egualitarismo che uccidendo il merito in realtà tradisce la mancanza di stima nei loro confronti e uccide l'autostima e la capacità di essere autonomi. E dai papà orsetto nascono ragazzi-peluche, che alla prima difficoltà si accartocciano su stessi.
E già, la colpa è nostra. Certo aiutati dalla temperie del tempo e dalle ideologie che attribuivano ogni colpa ai vari "sistema, abbiamo permesso che questa fosse l'epoca della fine dei doveri ed il trionfo dei diritti: che preludono alla mancanza di sforzo, fatica e merito per ottenerne il bene della vita.
Il padre etico sostituito dal padre affettivo e accuditivo è una buona sintesi, accompagnata dalla descrizione dei modi in cui sono sdoganate moralmente pratiche come la raccomandazione e la copiatura.
Ho trovato mirabile anche la parte in cui Polito si occupa del momento in cui si manifesta compiutamente tutto il servilismo dei padri e delle madri italiane nei confronti della propria prole, il momento in cui l’accudimento ossessivo tocca livelli parossistici e produce effetti tragicomici: l’ora dei compiti a casa. Scartate progressivamente le tre possibilità (far fare i compiti ai figli; fare i compiti ai figli, fare i compiti con i figli), l'unica soluzione collima con quello che ho sempre sostenuto io: E allora, direte voi, che si fa? I compiti devono pur farli, i nostri figli. Appunto: devono pur farli. Cioè: li devono fare loro.
Dopotutto giunge poi quel momento. Tutto, successo e insuccesso, felicità e infelicità, ascesa e caduta, a un certo punto della vita dei nostri figli dipenderà totalmente dall’ambiente extrafamiliare in cui vivono. Da una certa età in poi, la cosiddetta peer pressure, e cioè la pressione competitiva e omologante del gruppo dei pari età diventa la spinta decisiva.
E allora quello che possiamo fare è solo dar loro gli strumenti, e se possibile creare l'ambiente e le condizioni per cui si orientino al meglio.

Anche Ed Sheeran

Per la serie "chissenefotte", un noto cantante, Ed Sheeran, annuncia di aver buttato lo smartphone.
Mai stato meglio, dice, non togliendo o aggiungendo granchè alla nostra vita
Epperò, epperò.
Qualche tempo fa avevo postato ragioni analoghe alle sue in relazione a talune mie scelte.
Vuoi vedere che fra un po' saremo un bel po?

Estreme parole

In una fantasticheria di quelle che ogni tanto mi occorrono, ho avuto modo di pensare alle parole che vorrei dire ai miei figli se li incontrassi consapevole che sono le mie ultime ore.
Ne ero sprovvisto, ho dovuto cercarle, ho faticato a selezionarle.

Cari ragazzi, 
credete in voi stessi, in quello che potete diventare con lo studio, la fatica, il lavoro.
Non fatevi di ingannare dall'illusione che esistano cose facili; comprendete, rispettate e apprezzate la complessità delle situazioni e delle persone.
Abbiate deferenza per le parole, usandole con correttezza e parsimonia.
Dalle strade sbagliate che prenderete, tornate indietro, imparando se possibile dai vostri errori.
Avete come tutti delle debolezze: ri-conoscetele, accettatetele, combattetele. 
Non smettete mai di studiare, di imparare, di provare a essere migliori.
Pretendete da voi stessi quello che chiedete agli altri.
Abbiate eguale rispetto della persona che siete e di quella che vorreste diventare, e chiedetelo a chi vi circonda.
Cercate la bellezza in ogni cosa, e quando la trovate fermatevi ad ammirarla e godetene.
Cercate la persona che vi consideri la cosa importante.
Pretendete sempre che il meglio debba ancora venire.
Cercate la vostra strada, e trovatela. 
Perdonate quest'uomo per quello che non vi ha dato e per quello che non è stato.

E dai, smettetela!

Di mostrarmi la foto che avete fatto, il filmato di ieri, l'ultimo post, su quel cazzo di smartphone.

sabato 20 gennaio 2018

Obama il grande

di Massimo Teodori

Il libro l'ho letto circa un anno e mezzo fa. Teodori lo ascoltai a Gorizia e poi a radioradicale dove lo aveva presentato.
Mi è tornato in mente ieri, mentre su Netflix mi guardavo un'ora di televisione perfetta, Obama con Letterman.
Intervista di un'ora, due pensionati che parlano di tutto senza nominare Trump.
Ho pensato: ecco un grande uomo, uno che aveva spessore e consapevolezza del ruolo che rivestiva e al tempo stesso l'umiltà di comprendere che lo faceva per un tempo finito.
Con uno così, al raffronto con il successore a maggior ragione, veniva qualche ragione di sperare in un mondo migliore.

Il libro, dunque.

Teodori la sua conclusione la dichiara nel titolo. Ma spende molta parte dell'argomentazione a contrastare l'impressione, all'epoca generalizzata, che l'amministrazione Obama fosse stata una delusione, ricordando che la delusione è funzione fra aspettative e risultati, e che le prime erano veramente eccessive.
Me le ricordo, il giorno delle elezioni nove anni fa, le persone che camminavano per strada a New York, incredule a festeggiare un Presidente nero e pop. Io stesso, prendendo il treno per Monfalcone, mi ero portato appresso la radio, per ascoltare inutili cronache al solo motivo di crogiolarmi in una di quelle rare notizie ascoltando le quali ti pare che il mondo abbia svoltato, per una volta, nella direzione giusta.
Il mondo non lo poteva cambiare da solo: e da qui la diffusa e ingenerosa opinione che la presidenza di Obama non sia poi stata granchè. 
Teodori prova ad applicare i criteri che fra qualche anno utilizzeranno gli storici; contestualizza, analizza soprattutto le fortissime resistenze incontrate al congresso e nel Paese, in quella parte del Paese che lungi dall'accettarlo lo ha rigettato come simbolo di quanto esiste di un-american, prefigurazione del declino. Non senza una che forte componente che si colleghi allo scandalo del colore della sua pelle. 
Obama fu accolto dalla crisi economica, improvvisa e tremenda, ma in due anni ha portato fuori il Paese. 
Tenendo ferma la barra sull'antimilitarismo e sul rigetto delle avventure neocon-bushiane, ha dato forse adito ad accuse di debolezza, ma in realtà ha ricostruito l'immagine di una nazione che mai come all'epilogo dei due mandati di Bush era screditata e odiata per il contrasto fra i valori che dichiarava ed un operato violento e parimenti pasticciato. Errori ve ne sono stati, ma (opinione mia) gli accordi con Cuba e Iran sono veri pezzi di storia, per non parlare di quello sul clima. 
Ferma la barra sui diritti civili, impegnato duramente nella campagna per l'assistenza medica, il suo più grande scacco lo ha avuto, dichiaratamente, sulla diffusione delle armi.
Non più superpotenza unica, ma di nuovo nazione guida, con rinnovata spinta sul soft power, e con la Cina comunque tenuta distanza.
Di più, fa capire Teodori, non si poteva fare e probabilmente il tempo renderà giustizia.
E Obama il grande, lo ha detto prima di conoscere il successore.

mercoledì 17 gennaio 2018

L'importanza dei congiuntivi e dei condizionali

E' un po' difficile riassumere il contributo di grande intelligenza di questo articolo di Biagio De Giovanni sul Mattino di qualche giorno fa (e perchè poi riassumerlo? ci sono cose che possono essere comprese solo se meditate e lette con attenzione, tempo e fatica; alla faccia dei social e della negazione della complessità; e degli "Immediati" di cui parla Rutelli, sì lui, in un libro che forse varrà la pena di comprare.)

Tocca riportare le sue parole già in precedenza mirabili allorchè  si chiedevano: 
Che cosa significa oggi, per un movimento politico, essere eversivo? Per definirlo tale non aspettiamoci la ripetizione della marcia su Roma del 1922 o gruppi di energumeni con i manganelli nelle strade”. Ma l’eversione esiste, anche nella parvenza del gioco democratico: “Eversivo, in una situazione democratica, è chi immagina se stesso, il movimento di cui è parte, come protagonista di una palingenesi. Il protagonista dice: opero in una situazione lontana da questo incomposto magma corruttivo che mi sta dinanzi… guardo tutti da una postazione dalla quale tutti gli ‘altri’ sono coinvolti… Tutto questo va superato, distrutto”. 
Ideale per questa eversione sono “le nuove forme della comunicazione”. “Eversiva può diventare, sta diventando un’opinione pubblica che si forma così, con questi canoni, con la ‘violenza’ di una sola parola che vale metaforicamente, s’intende, un colpo di pistola”.
Toh, ma allora io quando avevo fra il serio ed il faceto buttato lì che il M5S è un movimento tecnicamente fascista non l'avevo sparata così grossa...

Impossibile quindi, anzi vietato, riassumere. Riporto con  mie sottolineature e grassetto, per mero esercizio:
"Quello che chiamiamo populismo ha già avvelenato il clima della nostra democrazia parlo solo di noi - e prevedo che altro veleno sarà inoculato, nella caduta verticale delle culture politiche che danno consistenza a una nazione. Nelle vene dei populisti, lo sappiamo, scorre il sangue anti-élite, con un sentimento che individua nella politica la casta per eccellenza, che va odiata, detronizzata, sbeffeggiata. Tutto ciò che riguarda la casta - e già il termine usato è sintomo decisivo- è prevaricazione, sistema di privilegi da annientare, da far odiare, odio da far covare nel rancore sociale, ormai perfino registrato in Italia, dagli istituti di ricerca, come dominante nello spirito pubblico. Ecco già un primo punto, ma da qui tanti altri ne nascono, e bisogna dare a essi i nomi giusti e incominciare a offrire le controargometazioni, ad evitare che l'espansione a macchia d'olio di questo stato d'animo metta in ginocchio l'Italia, come già sta avvenendo, come potrebbe avvenire in un futuro vicino. 
Un ragionamento che bisogna avviare e che bisognerà tener fermo anche per contribuire a restituire alle classi dirigenti il senso del loro ruolo, chiamarle a un miglioramento delle loro prestazioni per una vera e propria resistenza che si deve preparare. È necessario aprire una lotta culturale e politica che sarà lunga e aspra, e che ha per oggetto nientemeno, guardato pure oltre i nostri confini, il destino delle democrazie liberali e rappresentative. 
Quale è l'altro nome nemico, esorcizzato, rifiutato, reso mostruoso, contro il quale il populismo si batte, convinto di aver trovato la chiave d'oro del proprio successo? È il potere che dovunque si manifesti va negato, rigettato, sterilizzato, neutralizzato, demonizzato, in nome del popolo. Ma questo ad opera di chi, e in vista di che? Da chi parla in nome di una pretesa società di uguali, nei quali riposa il giudizio di Dio; in vista di un auspicato ugualitarismo meccanico, quello che la cultura liberal-democratica ha sempre negato e contro il quale Benedetto Croce elevava la sua critica ironica e sferzante, giudicando l'egualitarismo, il democratismo il vero nemico della democrazia e del liberalismo «nel suo far pesare la massa, il, popolo, la plebe nei consigli e nella deliberazione politica»: oggi, il popolo mediatizzato virtualizzato retizzato, e l'individuo ridotto, nella sua realtà profonda, ad atomo solitario.

Dunque, ciò che diventa centrale, nel populismo, è la lotta contro il potere dovunque si manifesti nelle relazioni umane e politiche. Un'incultura drammatica rischia di invadere la coscienza dell'Italia, e mi fermo a nominare l'Italia per il carattere particolarmente virulento ed esteso che da noi ha assunto quella che viene chiamata lotta contro il potere, sterilizzazione completa del suo ruolo: attenzione, con il potere arrivano i corrotti, i nemici del popolo, appena il suo ruolo si disegna all'orizzonte, e la politica ne fa le spese sotto i colpi dell'antipolitica. Le distinzioni necessarie e anche critiche si disperdono nel vociare incolto che ne attacca la dimensione generale, spesso in un'orgia giustizialista che mescola tutto, tutto parifica con furia distruttiva, il potere diventa per sua natura abuso. In questa lotta anzitutto culturale si deve riprendere il problema dal suo capo: far comprendere che il potere è il centro di energia da cui nasce la storia degli uomini, l'onda che la attraversa, e nella sua grande forza organizza la vita comune. Il potere, nella sua potenza creativa, è la profonda volontà di applicare la ragione al disordine della vita, è un centro di energia, di pensiero e di volontà, una esigenza che suscita tutta una vita, una vasta onda di vita negli animi umani. Una democrazia che immagina di poter sterilizzare il potere lotta contro il proprio valore primario, quello che garantisce la continuità della vita. Una democrazia che immagina questo diventa da un lato, e ufficialmente, povero contenitore di una procedura svuotata, oltre la quale, però, un vero nuovo potere domina la scena, negando di esser potere, che è la cosa peggiore che esso possa fare, perché proprio così esso si sottrae alla critica, si colloca oltre di questa, in un luogo incontaminato dove prevalgono l'innocenza, la bontà, il disinteresse. Lotta dei buoni contro i cattivi, i manichei in azione, partecipi di quella religione che divideva il mondo in bene e male, e che il cristianesimo combatté con tutte le sue energie. Tutto questo, nelle nostre società, fa esplodere il giustizialismo mediatico dove, con il plauso di tanti, si celebrano processi che riguardano anche relazioni tra esseri umani, uomo e donna, dove il potere (reciprocamente) può giocare un suo ruolo in infinite sfumature prima di diventare, come può accadere ed è accaduto, opera del demonio che alberga in ogni uomo e soprattutto nel maschio. 
Vuol significare, questo, negare la possibilità della critica? Chi parla così vuol solo confondere le acque, e nella confusione generale far prevalere la propria incultura, il neo-primitivismo che si disegna vincente all'orizzonte. La critica è non solo possibile, ma necessaria, perché il potere può, certo, abusare di sé e quante volte lo fa!- ma la critica è possibile, efficace, alla sola condizione di non avere come premessa e condizione prioritaria la distruzione del principio che criticaSe si accoglie la forza etica, politica, istituzionale, rappresentativa del potere, allora la critica ne arricchisce la storia, contribuisce a organizzare culture e gruppi umani nelle società civili, coglie in fallo chi in fallo va colto. Non però come esponente di un luogo di abusi, che dunque va ridicolizzato e condannato in diretta tv, aizzando i rancori e rendendo barbara una società, ma come quel luogo che, in un momento difficilissimo della storia del mondo, quando tante cose possono andare in rovina, deve caricare su di sé la possibilità di un nuovo ordine. Il quale richiede professionalità, competenza, cultura, ragionevolezza, dialogo, riconoscimento, e vorrei dire il linguaggio complesso dei congiuntivi e dei condizionali, proprio l'opposto di tutto ciò che il populismo nostrano intende far valere, nuovo tribunale del giustizialismo di oggi, dove si usa l'indicativo assertivo, l'unico verbo conosciuto. 


Uno così deve farcela per forza


Il filmato diffuso dagli ex campioni del Milan (che squadra, che nostalgia) per i 40 anni di Gattuso sono un po' la solita americanata strappalacrime, che sa di nazionalpopolare berlusconian-defilippesco.
Ma dicono anche qualcosa di più.
Che dei calciatori che guadagnano milioni giocando a calcio possono restare dei ragazzi che una squadra lega e fa diventare amici.
Che può essere un vero campione chi, meno dotato tecnicamente, fa del carattere la sua dote da fuoriclasse. 
Che la differenza, la fanno le persone.


Uno così, uno che ispira le parole che Ancelotti gli ha dedicato, deve farcela per forza.

Quarant’anni, caro Rino, meritano una lettera d’auguri seria, mica soltanto una telefonata, le nostre solite chiacchiere, i nostri scherzi. Quarant’anni sono un momento di riflessione, c’è abbastanza tempo alle spalle per ricordare e c’è anche tanto spazio davanti per costruire nuove imprese. Adesso che ti vedo sulla panchina del Milan, e ti agiti come un matto, urli, sbraiti, inciti i tuoi giocatori, mi viene da pensare che sei la persona giusta al posto giusto: c’è bisogno della tua passione, del tuo carattere, del tuo spirito di sacrificio per superare gli ostacoli; c’è bisogno anche della tua allegria per sdrammatizzare certe tensioni; e di qualche tua solenne arrabbiatura per svegliare qualcuno che dorme, perché in una squadra, in un gruppo, c’è sempre qualcuno che dorme...
In campo eri il mio guerriero. Mai una volta che ti abbia visto mollare, mai una volta che ti abbia visto la maglia pulita, mai una volta che non ti abbia visto fare fatica. È questo che ho sempre ammirato in te: la capacità di arrivare all’obiettivo nonostante la natura non ti avesse dotato di grandi mezzi tecnici. Perché - posso dirlo? - i tuoi piedi non sono proprio il massimo dell’educazione! Però la grinta che ci mettevi tu non ce l’aveva nessuno e, cosa non comune, sapevi trasmetterla agli altri. Quante volte ti ho visto parlare con un compagno per aiutarlo, spronarlo, sorreggerlo nei momenti difficili! Il calcio è questo: al di là degli schemi, dei moduli, delle diagonali, del pressing e delle ripartenze, ci sono le persone. E sono le persone che fanno la differenza. Tu, caro Rino, per me e per il nostro Milan, l’hai fatta.
Otto anni, giorno più giorno meno, ti ho allenato. E ti ho sopportato. Prima delle partite eri inavvicinabile: nervoso, scontroso. Era il tuo modo di prepararti e siccome anch’io, quando giocavo, entravo in partita con largo anticipo, con te sapevo come comportarmi: una battuta tanto per abbassare il livello dell’ansia, una risata, una passeggiata fuori dallo spogliatoio. Ti ricordi quand’eravamo in ritiro a Malta, nel gennaio del 2007? Kaladze ti ha fatto diventare matto, perché ti prendeva in giro per il tuo compleanno, e gli altri compagni lo appoggiavano. Io facevo finta di niente, ma sapevo che con te non bisognava mica esagerare sennò, come si dice tra di noi, "scatta l’ignoranza". E difatti una sera rincorresti Kaladze nella sala ristorante e non voglio sapere che cos’è successo. So, però, quello che è successo qualche mese più tardi. In quei giorni, a Malta, io vi feci una promessa: vi porterò in finale di Champions. Voi mi prendeste per matto. Ma poi in finale ci siamo arrivati, e l’abbiamo pure vinta. E tu, Rino, di quel Milan, sei stato l’anima. Ti auguro di esserlo ancora dalla panchina, te lo meriti.


Facce Ryder

"Le mie caratteristiche principali sono il dribbling e la velocità, ma sono qui anche per fare gol, o almeno aiutare la squadra con degli assist, ma principalmente voglio fare gol".

domenica 14 gennaio 2018

Le otto montagne

Immerso nel fantastico scenario della val di Fassa, mi sono dedicato a questo best-seller, a lungo tenuto in caldo.
Ero nell'occasione uno degli sciatori invisi a Pietro e a suo padre, perchè la montagna la snaturano e la sfruttano come usa e getta: ma nelle pagine in cui l'amore per la montagna viene raccontato descrivendo quello che si prova lassù mi sono riconosciuto eccome anch'io. E anche nel sogno di vivere lassù, da vero montanaro come Bruno.
Pagine belle sentite ben scritte raccontano di un mondo e di un rapporto, regalando perle che fanno riflettere sulla vita e sulle cose che contano.
Certe, segnatamente quelle che raccontano dello zio studente di medicina che muore scivolando sotto una valanga, mettono anche i brividi al sottoscritto. Che poi si riconosce più nel padre di Pietro che nei due ragazzi, poi uomini, miei coetanei.
Bello e da rileggere per apprezzare meglio i particolari, e ritrovare alcuni spunti certamente rimarchevoli.
L'autore è persona che ha delle idee.



Tornato quassú dopo tanto tempo. Sarebbe bello restarci tutti insieme, senza vedere piú nessuno, senza dover piú scendere a valle.

Avevo già imparato un fatto a cui mio padre non si era mai rassegnato, e cioè che è impossibile trasmettere a chi è rimasto a casa quel che si prova lassú.

Lo vide perdere l’equilibrio e scivolare sulla pancia guardando in su, con le mani che cercavano un appiglio che non c’era.

E diceva: siete voi di città che la chiamate natura. È cosí astratta nella vostra testa che è astratto pure il nome. Noi qui diciamo bosco, pascolo, torrente, roccia, cose che uno può indicare con il dito. Cose che si possono usare. Se non si possono usare, un nome non glielo diamo perché non serve a niente.

L’estate cancella i ricordi proprio come scioglie la neve, ma il ghiacciaio è la neve degli inverni lontani, è un ricordo d’inverno che non vuole essere dimenticato.


Disse qui come l’aveva detto sempre: come se ai piedi della sua valle ci fosse un confine invisibile, un muro eretto solo per lui, che gli impediva l’accesso al resto del mondo.
– Magari potresti scendere tu, – dissi. – Magari sei tu che devi cambiare vita.
– Io? – disse Bruno. – Ma Berio, ti ricordi di chi sono io?

Sí, me lo ricordavo. Era il pastore di mucche, il muratore, il montanaro, e soprattutto il figlio di suo padre: proprio come lui, sarebbe scomparso dalla vita di sua figlia e basta

Io avevo invidiato una volta di piú quel suo talento per l’amicizia. Non aveva nessuna intenzione di invecchiare sola e triste.
Disse: – Secondo me ci devi riprovare.
– Lo so, – risposi. – Però non so se serve a qualcosa.

Aprii la finestra e allungai una mano fuori. Aspettai che un fiocco di neve mi si posasse sul palmo: era bagnato e pesante, si scioglieva subito a contatto con la pelle, ma chissà com’era stato duemila metri piú su.

Restai ad ascoltarlo. Capivo che ci aveva riflettuto a lungo, e che aveva trovato le risposte che cercava. Disse: – Uno deve fare quello che la vita gli ha insegnato a fare. Forse quando è molto giovane, chissà, può ancora scegliere di cambiare strada. Ma a un certo punto uno dovrebbe fermarsi e dire: bene, questo sono capace di farlo, quest’altro no. Cosí mi sono chiesto: e io? Io sono capace di vivere in montagna. Mi metti quassú da solo, e io me la cavo. Non è poco, non credi? Ma si vede che dovevo arrivare a quarant’anni per scoprire che valeva qualcosa.

Ognuno di noi ha una quota prediletta in montagna, un paesaggio che gli somiglia e dove si sente bene.

L’estate cancella i ricordi proprio come scioglie la neve, ma il ghiacciaio è la neve degli inverni lontani, è un ricordo d’inverno che non vuole essere dimenticato.

La montagna non è solo nevi e dirupi, creste, torrenti, laghi, pascoli. La montagna è un modo di vivere la vita. Un passo davanti all'altro, silenzio tempo e misura.

Se il punto in cui ti immergi in un fiume è il presente, pensai, allora il passato è l’acqua che ti ha superato, quella che va verso il basso e dove non c’è piú niente per te, mentre il futuro è l’acqua che scende dall’alto, portando pericoli e sorprese. Il passato è a valle, il futuro a monte.

Stavo imparando che cosa succede a uno che va via: che gli altri continuano a vivere senza di lui.

Mi sembrava di riuscire a cogliere la vita della montagna quando l’uomo non c’era. Io non la disturbavo, ero un ospite ben accetto; allora sapevo di nuovo che in sua compagnia non mi sarei sentito solo.

Qualunque cosa sia il destino, abita nelle montagne che abbiamo sopra la testa.

E diciamo: avrà imparato di piú chi ha fatto il giro delle otto montagne, o chi è arrivato in cima al monte Sumeru?


mercoledì 3 gennaio 2018

#sacchettibiodegradabili

Un po' mi vergogno, a dire pure io la mia su questo argomento.

Ma tant'è, qui non mi sente nessuno.

Fino a quando erano gratis, di scialare i famosi sacchetti nessuno si creava problema.
Ora che vengono chiesti due-tre centesimi del cazzo, al diavolo la coscienza ecologica, e si fotta il pianeta.
Con il contorno di miserabili ipotesi complottiste (ma guarda un po' se mi tocca dare ragione pure a Renzi), dei soliti fenomeni con un'etichetta su ogni arancia (la furbizia è la massima virtù in questo paese).

E' facile, fare gli ecologisti con i soldi degli altri.
E twittando con uno smartphone da 800 euro (40.000 sacchetti).

Ma va! 

La comunità che non c'è (più?)

Insultiamo chi non ci dà la precedenza.
Intentiamo una causa per danni al primo pretesto utile.
Il professore che mette una nota al pupo, lo minacciamo di azione legale.
Il primo che fa un errore, lo invitiamo, incapace, a cambiare mestiere.
I politici, sono tutti ladri che fanno schifo.
Gli statali, dei mangiapane a tradimento.
Gli imprenditori, degli evasori da sbattere dentro.
Tutti quanti, li insultiamo via chat.
L'insofferenza, l'assenza di empatia per gli altri e di sforzo per i loro comportamenti è il leit-motiv del nostro tempo, proporzionale solo alla capacità di autoassolvere le proprie debolezze ed i propri errori
Non ci sentiamo parte di (una) comunità nella quale condividere diritti, doveri e responsabilità, ma solo titolari di pretese.

Nel suo bel messaggio di fine anno, il Presidente Mattarella ha affrontato (anche), da par suo  quest'argomento:
Si è parlato, di recente, di un'Italia quasi preda del risentimento.
Conosco un Paese diverso, in larga misura generoso e solidale. Ho incontrato tante persone, orgogliose di compiere il proprio dovere e di aiutare chi ha bisogno. Donne e uomini che, giorno dopo giorno, affrontano, con tenacia e con coraggio, le difficoltà della vita e cercano di superarle.
I problemi che abbiamo davanti sono superabili. Possiamo affrontarli con successo, facendo, ciascuno, interamente, la parte propria. Tutti, specialmente chi riveste un ruolo istituzionale e deve avvertire, in modo particolare, la responsabilità nei confronti della Repubblica.


Belle e doverose parole, da parte del Presidente (che ringrazio).

Purtroppo ci credo poco, ormai, io.