di Luca Ricolfi
Ecco un libro che interessa, spiega, sorprende, cambia il modo di vedere le cose e noi stessi.La formula che gli dà il titolo, e descrive l'archetipo tutto italiano di una società senza crescita, ma in cui la maggior parte dei cittadini adulti non lavorano, e nondimeno accedono a consumi opulenti, sintetizza l'osservazione della nostra attuale realtà (pre-covid), che si presta solitamente alla più nera "narrazione" del declino, della povertà dilagante al pari delle diseguaglianze, come alle opposte conclusioni che si è tentati di trarre dall'osservazione della diffusione di consumi indice di evidente benessere: letture che secondo Ricolfi non vanno acriticamente sposate, ma valutate appunto per comprendere la realtà del fenomeno complesso che descrive, con la solita chiarezza e l'altrettanto usuale riferimento a dati e testi.
Il primo capitolo si sofferma sulla definizione della società signorile di massa, che ho già richiamato nei suoi tre elementi essenziali, e descrivendone i riferimenti anche quantitativi.
Il secondo illustra i pilastri della società signorile di massa. E se forse non è una sorpresa trovare nel risparmio accumulato dalle generazioni dei genitori e dei nonni (grazie, eh!) il fondamento di un livello dei consumi di consumo che non è certo sostenuto solo dal lavoro, lo è certamente trovarvi il fenomeno (ahimè conosciuto, ahinoi ahivoi e ahiloro) della distruzione della scuola, con le sue conseguenze negative descritte con mirabile sintesi, ed ancor più la presenza di una "infrastruttura paraschiavistica" formata da quelle minoranze di lavoratori, per lo più stranieri, occupata in mansioni non gradite agli italiani (talvolta illegali) ed in condizioni di sfruttamento. Apprendere le dimensioni di questa realtà, nelle stime rese sempre semplici da Ricolfi, risulta particolarmente istruttivo.
La descrizione della "condizione signorile" dice molto di noi: senza che possiamo gloriarcene troppo. Sembriamo aver risolto, avverando la profezia di Keynes, il problema economico, grazie all'aumento della produttività: peccato che il minor lavoro non sia stato ripartito proporzionalmente, ma dividendo nettamente coloro che lavorano (molto o anche troppo) da quelli che non lo fanno. Il tempo libero guadagnato non lo abbiamo usato per acculturarci, vivere in modo più saggio; ma dedicato ai consumi collegati al cibo, alla rete, al gioco. In pratica cazzeggiamo (" siamo, in definitiva, un paese che non studia, non legge e gioca. Ma sconcertante è anche il fatto che le speranze di ascesa sociale, un tempo legate allo studio e al lavoro, ora si riducano alla scommessa di bruciare le tappe dell’ascesa sociale con una puntata al gioco del lotto, o con la partecipazione a un programma di quiz in TV. E ancora più sconcertante, forse, è la crescente incapacità di occupare il tempo vuoto con l’arte dell’ozio, fatto semplicemente di solitudine, contemplazione, pensiero, amicizia. E persino di noia.").
La composizione del consumo si è evoluta negli ultimi trentanni: alla tradizionale triade casa, auto e vacanza si sono aggiunti cospicui consumi per categorie che vengono descritte riepilogandole in "food", "fitness", "servizi alle famiglie", "internet e tecnologia", "droghe" e "gioco" (impressionanti i numeri di quest'ultima categoria); ed in molte di queste categorie le "classifiche" internazionali vedono ai primissimi posti per il consumo l'Italia (cioè la maggioranza degli italiani che vi accedono).
Segue una tratteggiata descrizione delle conseguenze psicologiche della "mente signorile", in particolare del "doppio legame" tra i produttori e non-produttori, dell'insoddisfazione connessa ad aspettative lontane dalla realtà. Il nuovo rapporto tra risparmio e consumo (anche per del "subconscio successorio") è connesso un nuovo "carpe diem", in cui del concetto oraziano però si perde l'essenziale (l'elogio della moderatezza), ed una nuova accezione dell'individualismo, in cui mutano gli aspetti essenziali dell'affermazione di sè.
Il passo che ne tratta (sottolineature mie) concettualizza mirabilmente idee che mi frullavano disordinate per la testa: "Tradizionalmente, perseguire l’ideale dell’autorealizzazione significava cercare di raggiungere una certa meta, spesso definita da una condizione professionale, ma non di rado anche da condizioni di altro tipo: costituire una famiglia, comprare una casa in campagna, acquisire un certo bene più o meno prestigioso, riuscire a ottenere una determinata laurea, fondare un’associazione, essere ammesso in un determinato club, vincere un campionato sportivo. Questi modi di perseguire l’autorealizzazione, in campo professionale o in altri ambiti, comportavano soltanto di mettere in atto gli sforzi necessari per realizzare il proprio sogno. Sforzi non di rado fatti anche di fatica, sacrifici, rinunce, ma soprattutto della capacità di attendere.
Oggi è sempre meno così. Oggi per molti, specie se non lavorano, autorealizzazione significa scegliersi un terreno di gioco, che è quasi sempre legato al consumo e al modo di impiegare il tempo libero, e cercare di “essere qualcuno” su quel terreno. Di qui un completo capovolgimento del modello classico di autorealizzazione: le attività prescelte per costruire sé stessi sono perlopiù gratificanti e, di norma, non comportano alcuna attesa.
Vale ovviamente per lo svago, il cibo, le vacanze, il consumo culturale. Ieri si leggevano i libri, ora si va alle presentazioni, ai festival, alle fiere, a veder parlare l’autore. Assai più gratificante che stare a casa, da soli, a leggere...
Lo sforzo non sta più nel raggiungere, faticosamente e nel tempo, una meta o una posizione cui si ambisce, e il cui valore è già socialmente riconosciuto. Il vero sforzo sta nel trovare la nicchia in cui emergere, nel convincere gli altri che quella nicchia ha valore, e che noi stessi ne siamo occupanti significativi. Il che, nell’era di Internet, tipicamente significa diventare promotori di sé stessi, quotidianamente impegnati nella fatica di Sisifo di coltivare i propri follower, massimizzare la propria reputazione, valorizzare la propria immagine. Una valorizzazione che, a quanto pare, deve essere innanzitutto visiva, e potenzialmente rivolta a tutti.
Infine, Ricolfi si interroga sulla unicità del caso italiano e sulla possibile capacità anticipatoria rispetto ad altri paesi.
Si interroga soprattutto sulla domanda fondamentale: "signori per sempre?" (in altri termini, può durare?). La risposta, al solito, non è ideologica: forse sì, magari sì. La chiave risulta, in un sistema di economie interconnesse, la capacità di attirare il credito tenendo sotto controllo il debito pubblico, e soprattutto avere una produttività che sostenga esportazioni competitive sufficienti a compensare le importazioni. Punto dolente, quello della produttività, incredibilmente stagnante pur con tutto il progresso tecnico (con causa che l'autore non esita ad indicare nella variabile burocratica e nell'ipernormazione, specialmente a seguito della riforme "federaliste" di fine secolo): " Abbastanza prosperi per permettere a tanti di noi di non lavorare, non siamo abbastanza produttivi per permetterci di conservare a lungo la nostra prosperità. La produttività del lavoro del sistema-Italia non è solo ferma da vent’anni, ma è bassa, molto più bassa di quello che sarebbe richiesto dai nostri consumi (e dai nostri costumi): il fatto è che da mezzo secolo viviamo al di sopra delle nostre possibilità. Ecco perché il vittimismo non è giustificato."
C'è speranza?
È paradossale, ma quel che potrebbe succedere è che il racconto vittimistico oggi prevalente, alla lunga, funzioni come una profezia che si autorealizza. Proprio perché ci rifiutiamo di prendere atto del nostro benessere e della sua fragilità, potremmo benissimo, fra qualche decennio, trovarci ad avere perfettamente ragione – arrivati a quel punto – a raccontare noi stessi nel registro delle vittime.
Il problema, dunque, è non arrivare a quel punto. Fortunatamente la varietà di esperienze delle altre società avanzate ci mostra che, in quel che una società diventa, non vi è nulla di ineluttabile, e che ogni società è padrona del suo destino. Ci sono società, come i paesi luterani del Nord, che sono diventate opulente puntando sul lavoro dei più. E altre che hanno preferito percorrere la strada opposta: prendere congedo dalla civiltà del lavoro prima di raggiungere la piena opulenza.
L’Italia sta in mezzo, perché è riuscita nel miracolo di diventare una società al tempo stesso opulenta e inoperosa, perfetta realizzazione dell’archetipo di società signorile di massa. Il rischio, ora, è di non cogliere il punto decisivo: se nulla si fa, il nostro stupefacente equilibrio è destinato a rompersi, quando la stagnazione si trasformerà in declino.
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