di Renata Viganò
Recupero questo libro, che già aveva caldeggiato il prof Bellanti quando ero alle medie, nello scaffale dei suoceri, in cui mi rifugio per scappare dalla temuta tombola di natale.
La Viganò ha fatto la Resistenza, da lei non mi aspetto certo, in un libro scritto ancora nei '40, l'onore ai vinti e il mea culpa sugli eccessi dei partigiani. Non ci sono le tre Italie descritte da Oliva, ma quella giusta dei partigiani fieri ed onesti e quella sporca e cattiva dei fascisti, tirapiedi dei tedeschi descritti come sorta di animali assetati di dolore altrui. Nella valle sono tutti dalla parte dei partigiani, salvo i pochi collaborazionisti, del tutto assente è quella terza Italia che per Oliva è stata maggioritaria.
L'Agnese è un donnone che mai avrebbe pensato di occuparsi non si dica di armi, ma di politica, e invece ci si trova dentro per la perdita del suo uomo prelevato e ucciso dai tedeschi. Eppure non è l'occasione ma l'istintiva percezione di quale sia la parte giusta a farne un'instancabile staffetta e collaboratrice di una brigata nelle valli di Comacchio. Un anno di clandestinità in rifugi improvvisati, "caserme" nelle valli di pesca, baracche ricavate nei canneti, mentre i compagni lottano, muoiono, sfuggono alle bombe degli alleati che promettono di essere dalla loro parte, ma non arrivano mai e anzi uccidono.
Il sacrificio finale simboleggia quello di una generazione che trovatasi con il fucile in mano senza nemmeno capire il perchè l'ha usato per difendere la libertà e l'onore di una nazione.
Libro onesto e sincero nella sua partigianeria, nè documentarista nè romanzo dai complessi significati, piuttosto simile ad un film neorealista con cui condivide l'amore per quell'Italia semplice e bambina, che si poteva ancora sognare di cambiare.

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