martedì 26 settembre 2023

Grazie Presidente

Forse non è vero che sono sempre i migliori che se ne vanno.

Ma qualche volta sì (lo pensavo già qualche anno fa).

In un anno che ha già visto scomparire Ratzinger e Berlusconi, anche Giorgio Napolitano si aggiunge alla lista.

Nella cerimonia alla camera in cui si è celebrato quello che Gianni Letta ha giustamente definito un "lutto repubblicano", in cui si è parlato di Thomas Mann, di Dante, di Emanuele Macaluso, la scelta degli oratori è la miglior prova di quale gran vaglia sia stato questo "statista italiano ed europeo".  

Uomo delle istituzioni; protagonista della sinistra riformista; leader parlamentare stimato dagli avversari politici; riformista europeo; uomo la cui orgogliosa laicità non impediva il dialogo con le più alte personalità religiose; persona di autorevolezza universalmente riconosciuta, frutto di una cultura vastissima e continuamente alimentata. 
Come ha concluso Amato, "ci hanno fatto credere che la politica è sporcizia, o è lavoro da specialisti; e invece la politica la cosa pubblica siamo noi stessi. Giorgio Napolitano lo ha insegnato a tutti noi".

Purtroppo non dico la doverosa ammirazione, ma nemmeno un elementare parce sepultis riesce a farsi strada davanti alla morte di uomo.
Riconoscere di quello che è stato percepito come un avversario i meriti, se non la grandezza, dovrebbe misurare la stoffa delle persone. E freschi stiamo, a leggere più d'uno dei coccodrilli dell'altroieri. Li ha giustamente stigmatizzati, da par suo, Giuliano Ferrara (altro livello); Quello che il giudizio sgangherato della destra pubblicistica non afferra, quando parla di camaleontismo in morte di Napolitano, è appunto questo: la politica ha regole sue, può essere anche visione o prefigurazione ma non è mai utopia o anarchia, il potere non concede margini ambigui all’antipotere, e non è una questione di metodo ma di essenza dell’arte dello stato e del possibile. La carriera comunista e repubblicana dello statista morto venerdì scorso, dal soviettismo togliattiano al gradualismo riformista e europeista, dunque atlantista, è stata un pezzo di storia perché al contenuto della storia, che non ha senso né significato oltre sé stessa, ha aderito con inaudita e scabra pignoleria analitica, passo dopo passo, cambiamento dopo cambiamento.

Sempre su "Il Foglio", Sergio Soave ha vergato una sorta di lungo epitaffio (sottolineature mie):
Sarà la storia a dire quale sia stata l’influenza di Giorgio Napolitano sulla vicenda italiana. Quello che si può dire fin d’ora è che è stato un uomo delle istituzioni, che ha portato nelle aule parlamentari, nei governi e infine al Quirinale un’esperienza e una serietà politiche maturate in decenni di lavoro intenso e impegnativo, il segno di battaglie condotte con convinzione, ma senza iattanza. Uno degli aspetti del suo carattere, infatti, è stata la ricerca di un metodo di intervento in cui la passione e l’opinione personali venissero espresse attraverso un ragionamento legato all’esperienza comune. Anche nel corso delle controversie più dure che rendevano necessaria l’assunzione di posizioni divisive, come quella per l’approdo riformista e socialdemocratico del corpo del Pci, veniva criticato dai settori più radicali della sua stessa corrente per il modo quasi felpato con cui descriveva posizioni anche assai nette di dissenso dalla maggioranza del partito.
Va detto che, però, se il metodo era dialettico, la tenacia con cui quelle posizioni sono state difese e sostenute è stata altrettanto indiscutibile. Napolitano non è rimasto sempre eguale a se stesso, come ha scritto egli stesso: “La mia storia … non è rimasta eguale al punto di partenza, ma è passata attraverso decisive evoluzioni della realtà internazionale e nazionale e attraverso personali, profonde, dichiarate revisioni”. La sua lezione di serietà e competenza, di riluttanza alla personalizzazione, l’impegno a leggere sempre la realtà nazionale nelle coordinate internazionali, è particolarmente valida oggi, quando proprio le sue indiscutibili virtù sembrano scarseggiare, salvo rare eccezioni, nelle classi dirigenti non solo politiche. E’ difficile credere che la sua eredità sarà raccolta, anche perché affonda le radici in una realtà e in una cultura del secolo scorso, il che non significa che sia superata o obsoleta. Un paese, o se si preferisce una nazione, che non sa far tesoro del suo passato rischia di non capire il presente e di affrontare il futuro senza una bussola.


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