domenica 6 novembre 2016

Mi hai già dato tutto quello che mi serve

Così dice affettuosamente Rory a Lorelai nell'ultima puntata della settima serie di Gilmore Girls, il curatissimo telefilm (si chiamavano così negli anni 80, quando ne ho visto per l'ultima volta uno prima di questo) di cui a giorni Netflix proporrà quattro nuove puntate.

Mentre la figlia è intenta ai preparativi per la partenza per il primo lavoro, al seguito della campagna presidenziale del senatore Obama (cui portò fortuna...), la mamma cerca di sconfiggere l'emozione per l'imminente distacco occupandosi "della valigia". 
Prendi quel rossetto, ti darò quella mia maglietta che ti sta tanto bene, non scordare il k-way.
Rory, da sempre la più matura delle due ragazze Gilmore, capisce il momento della madre, al dunque del vedere se il suo compito di genitore cui ha sacrificato così tanto è stato coronato da successo.
E con una sola frase che al tempo stesso dice grazie, non preoccuparti, le fa capire che non le cose materiali le ha dato, ma la consapevolezza e la capacità di cavarsela da sola.
In quella frase c'è la chiave dimenticata di un sano rapporto genitore - figlio, che così poco vedo compresa ed ancor meno vissuta dalla mia generazione, che sta rovinando oltre a parte della propria vita anche i propri figli.
Figli sempre accuditi in tutto, sempre guardati a vista, sempre al centro dell'attenzione, assistiti nei compiti, accontentati nei capricci, accompagnati nei giochi, tifati alle partite, giustificati davanti alle maestre, portati a iscriversi all'università, esibiti come trofei a perplesse coppie di amici senza prole.
Quasi mai trattati come bambini che devono stare con i loro pari età, che devono semplicemente essere aiutati ad essere autonomi, senza un adulto sempre presente che provveda ad ogni cosa.
Noi invece whatsappiamo per chiedere agli altri genitori i compiti per casa che loro dimenticano di segnare, li seguiamo in corteo quando vanno a chiedere dolcetto scherzetto, li applaudiamo a fine partita come dopo una vittoria in Champions, parliamo solo di loro o con loro ai pranzi di famiglia. Applichiamo principi democratici ad un rapporto che non può che essere gerarchico, anche tirannico per il bene del tiranneggiato, fino a quando non è capace di fare la rivoluzione e uccidere il tiranno.
Occupandoci di tutto per loro, risolvendo ogni problema, dirimendo le loro controversie, tenendoli a vista per preservarli da ogni rischio eliminiamo qualche fastidio pratico nell'immediato, e ci laviamo la coscienza. Ma non lo facciamo, il nostro dovere, e alle rotture di palle di oggi domani dovremo aggiungere il rimorso di quando li vedremo fragili e privi di strumenti di fronte alle difficoltà che dovranno affrontare quando non saremo più lì, a tener manina.
Qualcuno ci crede veramente; i più si adeguano alla massa, temendo di passare per genitori disinteressati se non passano il pomeriggio al festino dell'amico a parlare della maestra; molti altri semplicemente non ce la fanno ad affrontare le inevitabili fatiche di dire dei no, di non conformarsi.
E tutti convinti che sono gli altri, a rientrare nella descrizione del genitore talebano.
Giorgio Gaber cantava della sua generazione che ha perso, non era riuscita a cambiare il mondo.
La sconfitta che si profila per la mia è forse peggiore: stiamo rovinando i nostri figli.

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