domenica 20 novembre 2016

We did it!

Il più grande risultato della storia dell'Italrugby, sia pure con degli Springboks al minimo, è al solito un grande ed emozionante spettacolo.
Io e i ragazzi incollati allo schermo, mi sono trovato a urlare "metaaaaaaaa!", in piedi come per uno scatto di Pantani...

domenica 13 novembre 2016

Coreide (1)

Nella mia trentacinquennale frequentazione dello stadio Friuli ho acquisito un profondo patrimonio conoscitivo dei cori da stadio.

Mi piacciono, li apprezzo come forma d'arte popolare, li infliggo ahiloro ai miei figli.

Ci ho anche ragionato sopra, pratica assai singolare, provando a riconoscere i motivi musicali, a trovare i tratti ricorrenti, a immedesimarmi negli autori.

I cori dei nostri tifosi girano attorno 10-15 parole, sempre quelle, a descrivere il piccolo mondo di noi malati di calcio, che però colora le nostre domeniche.


Udinese e bianconero la fanno da padrone, ovviamente, assieme ai vari Alè, Olè, dai: l'incitamento e il suo oggetto.
C'è poi quello che chiediamo ai nostri beniamini: soprattutto la lotta, e la capacità di non mollare, l'amore per la maglia.
Magari tanti bei goal. E, solo se si può, la vittoria, vincere.
Vincere per il tifoso che è pronto a cantare, la squadra la segue ovunque e non la lascia mai da sola. Pronto a soffrire, ma con tutto l'orgoglio che dà il legame a questa squadra, simbolo di una gente e di una città.
Un amore che durerà finchè vivrà.

Il tutto è mirabilmente condensato nel coro del momento:
Siamo l’armata bianconera,
noi, siamo la curva nord.
Anche nel tuo peggior momento
giuro: io ti accompagnerò.
Bianconero è il color
che ci sale dal cuor
forza vinci solo per la curva nord

I servi sciocchi delle procure


C'è da riflettere, ahimè, su questo questo fondo di Fiandaca che andrebbe letto al primo anno di giurisprudenza, ma forse anche in qualche talk show la volta che c'è Travaglio fra gli invitati.

E' difficile selezionare, in un fluire di argomenti ugualmente penetranti ed importanti, i passi da segnalare.
Parole che pesano come pietre.
E’ un dato di fatto inconfutabile che il processo-trattativa costituisce una esemplificazione straordinaria di  un processo  inscenato nei media e potentemente alimentato da stampa e televisione, specie nelle sue fasi iniziali: con un bombardamento informativo continuo e drammatizzante, tendente ad assecondare come verità assodata ipotesi accusatorie ardite e basate (tanto più all’inizio) su teoremi storico-politici preconcetti, affondanti le radici in “precomprensioni” soggettive e – purtroppo – costruiti anche in vista del perseguimento di impropri obiettivi  lato sensu carrieristici.
Per scienza privata, maturata in una consuetudine ormai lunga di studioso col mondo della giustizia penale, so che qualche pubblico ministero considera più rilevante, in vista del successo di un’indagine o di un processo, l’efficacia della narrazione mediatica rispetto alla stessa fondatezza giuridica della tesi accusatoria. 
A sostegno dell’esigenza di mediatizzazione, qualche pubblico ministero ritiene perfino che il processo penale abbia scopi che trascendono l’accertamento dei reati e l’eventuale condanna, rientrando tra i suoi presunti obiettivi legittimi – tra l’altro – la ricostruzione degli eventi storico-politici, siano o meno ravvisabili ipotesi criminose: anzi, un procuratore aggiunto di Palermo ha esplicitamente sostenuto che il magistrato d’accusa è in condizione di ricostruire la storia meglio di uno storico di mestiere grazie al fatto che il magistrato dispone di strumenti coercitivi di accertamento della verità di cui lo storico non può disporre. Una tesi, questa, che non credo abbisogni di particolari commenti.
 Detto in altre più semplici parole: sarebbe finalmente il caso di prendere spunto dal processo sulla Trattativa per processare larga parte del sistema mediatico; ma sarebbe, nel contempo, auspicabile che siano i giornalisti a fare autocritica e a processare se stessi. In vista di un recupero della funzione critica della stampa e della capacità di indagare autonomamente sui fatti, senza essere servi sciocchi o interessati delle iniziative non sempre ponderate delle procure.

sabato 12 novembre 2016

Il mondo di Donald (6): Not My President

Questi non sono neanche i sinceri democratici di cui sopra.
Non partecipano, non votano, vengono fuori solo quando ci sono da menare le mani: ovviamente in nome ed in forza della loro superiore moralità, di fronte alla quale, cosa volete che siano le stanche procedure della democrazia...

venerdì 11 novembre 2016

Il mondo di Donald (6): la forza dell'America

La forza dell'America è il vero rispetto per le proprie istituzioni. 
Dopo lo scontro più duro che si ricordi, complimenti, strette di mano e collaborazioni.
Perchè, condivise le regole, si accetta il risultato, sicuri che quelle regole tutelino tutti.
Check and balances, ma soprattutto forza morale e istituzioni salde, l'America (che ha metabolizzato ben 8 anni di George Dabliu) può sopportare ben altro che un Trump. 

Il mondo di Donald (5): rimpianti paterni

Ha vinto anche nel Michigan. Scoramento in milioni di genitori che dicono ai figli: "E io che ti ho fatto studiare a Detroit!" 

Il mondo di Donald (4): corsi e ricorsi

E se fosse il nuovo Reagan?
Le analogie non mancano, francamente una ventata di aria nuova ci vuole. Tanto in campagna elettorale ha detto solo guasconate, quello che farà è un mistero glorioso forse anche per lui.

Il mondo di Donald (3): il popolo bue

E' ora di finirla con questa storia che chi vota in un certo modo (Berlusconi, Brexit o Trump) è perchè vive nell'ignoranza, non si informa o ha studiato poco.
Bisogna accettare che a determinare il voto, ed è giusto che sia così, sono soprattutto gli interessi, i valori, e anche le palle piene.
E che quelli/quelle li conoscono, meglio di soloni farisei e pedagoghi, soprattutto i diretti interessati. 

Il mondo di Donald (2): i sinceri democratici

E' pieno di sinceri democratici. Cui la democrazia non piace più quando a vincere non sono loro.

Il mondo di Donald (1): il politicamente corretto

Il politicamente corretto ha talmente rotto le scatole che chi dice cose politicamente scorrette viene premiato anche se si tratta di grosse sciocchezze.

domenica 6 novembre 2016

Mi hai già dato tutto quello che mi serve

Così dice affettuosamente Rory a Lorelai nell'ultima puntata della settima serie di Gilmore Girls, il curatissimo telefilm (si chiamavano così negli anni 80, quando ne ho visto per l'ultima volta uno prima di questo) di cui a giorni Netflix proporrà quattro nuove puntate.

Mentre la figlia è intenta ai preparativi per la partenza per il primo lavoro, al seguito della campagna presidenziale del senatore Obama (cui portò fortuna...), la mamma cerca di sconfiggere l'emozione per l'imminente distacco occupandosi "della valigia". 
Prendi quel rossetto, ti darò quella mia maglietta che ti sta tanto bene, non scordare il k-way.
Rory, da sempre la più matura delle due ragazze Gilmore, capisce il momento della madre, al dunque del vedere se il suo compito di genitore cui ha sacrificato così tanto è stato coronato da successo.
E con una sola frase che al tempo stesso dice grazie, non preoccuparti, le fa capire che non le cose materiali le ha dato, ma la consapevolezza e la capacità di cavarsela da sola.
In quella frase c'è la chiave dimenticata di un sano rapporto genitore - figlio, che così poco vedo compresa ed ancor meno vissuta dalla mia generazione, che sta rovinando oltre a parte della propria vita anche i propri figli.
Figli sempre accuditi in tutto, sempre guardati a vista, sempre al centro dell'attenzione, assistiti nei compiti, accontentati nei capricci, accompagnati nei giochi, tifati alle partite, giustificati davanti alle maestre, portati a iscriversi all'università, esibiti come trofei a perplesse coppie di amici senza prole.
Quasi mai trattati come bambini che devono stare con i loro pari età, che devono semplicemente essere aiutati ad essere autonomi, senza un adulto sempre presente che provveda ad ogni cosa.
Noi invece whatsappiamo per chiedere agli altri genitori i compiti per casa che loro dimenticano di segnare, li seguiamo in corteo quando vanno a chiedere dolcetto scherzetto, li applaudiamo a fine partita come dopo una vittoria in Champions, parliamo solo di loro o con loro ai pranzi di famiglia. Applichiamo principi democratici ad un rapporto che non può che essere gerarchico, anche tirannico per il bene del tiranneggiato, fino a quando non è capace di fare la rivoluzione e uccidere il tiranno.
Occupandoci di tutto per loro, risolvendo ogni problema, dirimendo le loro controversie, tenendoli a vista per preservarli da ogni rischio eliminiamo qualche fastidio pratico nell'immediato, e ci laviamo la coscienza. Ma non lo facciamo, il nostro dovere, e alle rotture di palle di oggi domani dovremo aggiungere il rimorso di quando li vedremo fragili e privi di strumenti di fronte alle difficoltà che dovranno affrontare quando non saremo più lì, a tener manina.
Qualcuno ci crede veramente; i più si adeguano alla massa, temendo di passare per genitori disinteressati se non passano il pomeriggio al festino dell'amico a parlare della maestra; molti altri semplicemente non ce la fanno ad affrontare le inevitabili fatiche di dire dei no, di non conformarsi.
E tutti convinti che sono gli altri, a rientrare nella descrizione del genitore talebano.
Giorgio Gaber cantava della sua generazione che ha perso, non era riuscita a cambiare il mondo.
La sconfitta che si profila per la mia è forse peggiore: stiamo rovinando i nostri figli.

martedì 1 novembre 2016

Andiamo a sgarfare

Nel calcio italiano di oggi, i diminuiti valori tecnici amplificano l'importanza dell'allenatore.
Soprattutto in un contesto in cui l'obbiettivo accanto a quello sportivo è la valorizzazione di giovani talenti prelevati in tutto il mondo: che hanno bisogno di chi li guidi, completi e formi quanto di un contesto di squadra organizzata e capace di proporre calcio in cui rendere al meglio e mettersi in mostra.
Per questo, le ben tre errate scelte del dopo Guidolin hanno prodotto 30 mesi di disastro tecnico e morale, azzerando quanto di positivo, anche sul piano dell'entusiasmo del pubblico, poteva portare (e ha portato) il nuovo stadio.
Adesso è arrivato Delneri. Una squadra che aveva giocato in maniera inguardabile e visibilmente con l'autostima sotto i tacchi ha infilato 4 buone partite con 7 punti. 

Giocatori accantonati assurgono al ruolo di trascinatori. Vecchi marpioni tornato al goal e finiscono la partita stremati dalla corsa. Tutti hanno la loro occasione, nessuno la dispensa dal giusto rimbrotto che aiuta a migliorare. Una curva che due partite fa aveva lasciato lo stadio per disperazione ha trascinato la squadra in preda alla rimonta; avesse segnato Zapata all'ultimo di recupero, lo stadio appena finito veniva giù.
E' certo presto per i sogni (che pure il tifoso fa, e non li esterna per pudore e scaramanzia...); una rosa comunque con limiti tecnici evidenti non permette voli pindarici, ma quel che basta sono le magliette sudate, lo sforzo di migliorarsi.
E quel po' di concessione al "cliente" che siamo noi. Sono bastate un paio di battute al mister per mostrare che almeno ci tiene, l'allenatore che è anche un tifoso (oltre che uno dei migliori tecnici italiani, con ottime prove in tutte le squadre medio-piccole in cui è stato). Il suo riferimento alla dignità dello sgarfare ha legittimato in pieno il coro "UNO-DI-NOI-GIGI-DELNERI".
E allora, con quel sogno nel cuore, che nessuno come lui saprebbe interpretare, ANDIAMO A SGARFARE


Odio "i pacchi"

A casa mia guardare  "Affari tuoi" è come gridare "Forza Juve".
A tutti è inibito soffermarsi sulla stucchevole trasmissione dove tirando ad indovinare si può anche vincere mezzo milione.
Ho sempre pensato che premiare in assenza di merito (vale lo stesso, a ben riflettere, per le lotterie) sottenda un messaggio profondamente diseducativo: nella vita studiare o essere bravi non serve, provaci e forse sarai fortunato.
Almeno la TV pubblica, che dovrebbe avere un ruolo latamente formativo, potrebbe forse astenersi.
Nel discuterne con pochi amici ho sempre citato l'esempio dei quiz di Mike, dove chi vinceva era un vero cervellone.
Non senza sorpresa trovo la mia stessa tesi in questa recensione del nuovo Rischiatutto di Fazio (che non ho visto e probabilmente non guarderò).
Solo con le piccole cose, si possono forse cambiare le cose...