Leggo il post Dum Romae consulitur, che pure si eleva molto di sopra delle banalità che si leggono in questi giorni, e mi trovo nel solito fraterno disaccordo.
La rabbia positiva che vi trovo si accompagna ad una analisi che subito individua il colpevole (il nostro pensiero debole e rinunciatario), il problema (siamo in guerra), la soluzione (l'autore non ce la dice ma ce l'ha, sembra in termini di necessaria riaffermazione identitaria).
Lasciali perdere i post che trovi sui social, Francesco. Ognuno dice la sua con i propri strumenti intellettuali, per fortuna a determinare il nostro destino non è il popolo di twitter e la montagna di cazzate che nel mondo 2.0 sono passate dal bar sport ad un web in cui lasciano traccia della denutrizione culturale di chi le esprime, con l'aggravante che ne possono trarre l'illusione di partecipare alla costruzione di una realtà collettiva con un click su di un like.
Per fortuna, però, non lo determiniamo nemmeno noi due, che qualche libro in più lo abbiamo letto.
La complessità che è la cifra della nostra realtà contemporanea temo non offra schemi semplificati quale quello che tu offri nelle righe che commento.
Che imperi un "kharma al quale tutti dobbiamo obbedire: l'integrazione", imposto dal pensiero dominante, mi sembra francamente riduttivo. Se non vogliamo porre delle barriere ai nostri confini (troppo tardi e impossibile in termini economici e demografici, temo) l'integrazione non è un capriccio radical chic, ma una necessità rispetto al quale i diversi paesi hanno proposto modelli diversi di cui leggo persino su wikipedia. Quello francese, paradigmatico dell'assimilazionismo, che impone i propri valori (laici e repubblicani) negando cittadinanza a leggi e usanze delle comunità di origine, si sta dimostrando fallimentare. Rispetto a questo tema tu proponi la necessità di far valere il "nostro vero sentimento". Con il necessario rispetto, se alludi ai valori cristiani, il nostro vero sentimento rischia di essere più il tuo che il mio. Devo assimilarmi anch'io? Non è questo il tema e stai già pensando che se ci dividiamo su questo siamo perdenti di fronte al nemico esterno. Quello che voglio dirti è che è lecito il dubbio che l'assimilazionismo in salsa cristiana possa avere maggiore successo. Che fare allora? In tutta onestà, io non lo so.
Quello che penso è tuttavia che la soluzione (se ve n'è una) di questa questione, che tu hai evocato, e che certamente è fra le centrali da affrontare nel nostro vivere contemporaneo, non si identifica con l'attuale crisi, che con i miei poveri mezzi identifico nel tentativo dell'islam politico radicale di esportare in politica estera la lotta per la supremazia che da molti anni combatte in medio oriente, per avere la meglio nei suoi paesi di origine. Al di là degli slogan buoni per aspiranti tagliagole non vedo l'Islam contro il Cristianesimo come non vedo Califfati contro Stati Europei, ma gruppi di estremisti, ben organizzati e determinati a tutto, che vogliono imporre la versione oscurantista e razzista dell'islam, condita da pauperismo e revanscismo postcoloniale (ridicoli i riferimenti alle crociate) e farne strumento di conquista anche dell'Europa.
Semplifico? Tremendamente.
C'entra questo pericolo mortale con il modo in cui dobbiamo trattare i musulmani che vivono da noi? Credo di poterne dubitare, e accetto per questo l'incriminazione per buonismo.
E allora, che fare?
Al di là della convinzione che il problema militare del califfato non possa costituire un ostacolo serio per gli eserciti occidentali, credo che sia naturale rimettersi come tu fai alla speranza che chi ci guida abbia saggezza e capacità.
Magari maggiori di quelli che li hanno preceduti procurando disastri talvolta dettati dalla necessità di una reazione muscolare purchessia. L'evocazione della guerra, salutare per svegliare le coscienze (ancora il valore della parola: ricordi il verbo 2.0?), non deve far trascurare che il contesto è quello in cui l'aspetto militare diventa solo uno di quello che compongono il puzzle.
Più che muscoli ci vogliono testa, sangue freddo e disponibilità al compromesso anche con taluni principi: in altre parole, la politica.
Ammesso che si risolva il problema in Siria ed in Libia, internamente ne avremo per un bel po'. Non potremo contare probabilmente sulla "maggioranza silenziosa" dei musulmani; anche se i tagliagole sono poche ed i contigui poco di più, gli altri non prenderanno posizione nè con loro nè con noi: loro non l'hanno avuta, la rivoluzione francese e l'affrancamento dalla schiavitù del pensiero unico religioso (ometto per carità il pippone sull'uguaglianza, in tema di prevaricazione delle libertà e dell'umanesimo, fra l'islam ed il cristianesimo prima che venisse ridotto a miti consigli dal secolo dei lumi cui non saremo mai abbastanza grati).
Avremo probabilmente anni duri, ma non dobbiamo dimenticare che i nostri nonni sono usciti dalle macerie della guerra e i nostri padri dagli anni di piombo.
Ce possiamo fare anche noi, se non perdiamo di vista i nostri valori, e se avremo la capacità di assumerci le nostre responsabilità, ma seriamente e non a mezzo tweet. In altri termini, con la disponibilità se necessario ad imbracciare un fucile.
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