La vicenda dei 7 ex terroristi (ingiusta formula semplificatoria) arrestati in Francia, in vista di una possibile estradizione, è di quelle che appaiono troppo semplici quando se ne apprende la notizia, e troppo complessa quando si comincia ad approfondire.
Sono portato a rifuggire dalla reazione quasi unanime di plauso alla giustizia finalmente fatta, che mi sembra un riflesso della passione nazionale per le manette e il carcere.
La lettura contraria, che pur si richiama agli stessi fondamentali principi della prescrizione, e per la quale sarei portato ad aderire per spirito libertario e per stima delle persone che la propongono (cito Ferrara, Manconi e Sofri), non mi convince tuttavia appieno.
Sofri la formula più o meno così, ricordando che nessuno dei rifugiati in Francia ha mai più commesso delitti: “la cosiddetta dottrina Mitterrand ha realizzato il fine più ambizioso e solenne che la giustizia persegua: il ripudio sincero della violenza da parte dei suoi autori, e così, con la loro restituzione civile, la sicurezza della comunità. La Francia repubblicana è riuscita dove il carcere fallisce metodicamente”.
Una risposta può essere quella di Benedetta Tobagi: "Nel tumulto degli anni Settanta, milioni di italiani fecero politica in modo non violento, con le manifestazioni, la disobbedienza civile, le battaglie processuali e la controinformazione. Perché, dunque, dovrebbero veder cancellate le proprie condanne gli ultimi di quei pochi che scelsero le armi? Questa giustizia, lenta ma ferma, non è solo per le vittime, è per tutti coloro che all’epoca non deragliarono, sopportando la fatica e le frustrazioni della pratica democratica”. E' un concetto che fa riflettere, anche perchè pur formulato dalla figlia di una vittima, inquadra la questione dal punto di vista del resto della società. E' un po' l'argomento contro i condoni, fondato sull'attenzione a chi ha rispettato le regole.
L'impressione è che rischi di diventare una discussione per pochi, per i pochi che parteciparono (o furono) vittime di quegli anni terribili, mentre proprio il passare di troppo tempo rende ormai impraticabile l'unica soluzione possibile (e nei fatti sollecitata dalla dottrina Mitterrand), quella politica.
Per fortuna capita di imbattersi nella intervista di Mario Calabresi con sua madre Gemma Capra, che è bello ascoltare in podcast.
Avevo già letto il racconto di Calabresi di come la madre abbia educato lui ed i fratelli a rifuggire l'odio verso chi li aveva privati del padre, per non essere costretti a provare una seconda tremenda perdita, un vita intrisa di rancore.
Dall'intervista emerge una grande e commovente lezione di una persona che è riuscita ad andare oltre l'odio, aiutata dalla fede, dalla vicinanza di molte persone, ma direi soprattutto da una grande intelligenza, che emerge da una frase come questa: "Una persona ha fatto cose negative ma anche tante cose positive, ricordiamolo per le cose positive, per il buon esempio, per il suo affetto, per la capacità di amare gli altri, ognuno ha un suo cammino. E così ho pensato anche di queste persone responsabili della morte di Gigi. Posso io relegare tutta la vita all’atto più brutto che probabilmente hanno compiuto? Forse sono stati dei bravi padri. Forse hanno aiutato gli altri. Forse hanno fatto…Questo non sta a me. Però loro non sono solo quella cosa lì, assassini, sono anche tante altre cose. Ecco, questo mi ha aiutato nel mio percorso di perdono».
Che esempio, che lezione, nell'Italia degli odiatori.
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