di Pierluigi Spagnolo
Una volta mi compiacevo quando, dopo aver formulato un'idea, la ritrovavo in libri, articoli di giornale o dichiarazioni in televisione. Un po' di frequentazione dei social fa capire agevolmente che, per quanto originale, quasi ogni pensiero che si formula si affacciato anche alla mente di molti altri, e toglie un po' di soddisfazione.
Tuttavia, ne rimane, a vedere nero su bianco, e assemblati per cercare un senso, più di qualche idea che ho ruminato negli ultimi anni.
E' un libro di parte: dalla parte dei tifosi.
Una categoria che l'evoluzione del movimento vuole evidentemente eliminare, trasformando i tifosi in spettatori passivi e consumatori. In clienti. Senza neppure riconoscergli quel diritto, che è proprio dei clienti, ad avere sempre ragione. Sembra invece che i tifosi abbiano sempre torto.
Gli stadi in teatri (l'autore mutua dall'urbanistica la definizione di "gentrificazione" degli stadi), con prezzi non alla portata di un pubblico popolare, ma di "turisti del pallone" e benestanti che rendano il pubblico addomesticato e meno problematico. Con l'illuminazione psichedelica, le formazioni all'americana. Le esultanze guidate, la musica che copre i cori.
Le maglie più impensate, i loghi stravolti, le partite all'estero o ad orari impensati.
Calciatori pagati come divi, a tutto discapito di bilanci inesorabilmente gonfi di debiti irredimibili.
Spagnolo offre cronaca, dati e riflessioni su un percorso iniziato negli anni 90 e ormai arrivato ad un passo dall'esplosione del sistema. E diversi spunti molto interessanti.
La premessa è la definizione delle caratteristiche del calcio moderno:
- la sovraesposizione mediatica, con tutte le partite in diretta e a pagamento;
- la scomparsa della ritualità domenicale in favore dello spezzatino;
- la svolta finanziaria, con conseguente aumento del divario tra le società maggiori e quelle minori;
- la crescita di spesa per ingaggi e acquisto dei calciatori
- la perdita di centralità dei tifosi;
- la demonizzazione del tifo organizzato ed in particolare degli ultras.
All'ultima Spagnolo dedica pagine che fanno riflettere, offrendo un punto di vista diverso sul movimento ultras, ultima controcultura e (anche nei suoi aspetti deteriori) specchio di una società di cui si vuole nascondere la parte più genuina ed appassionata. Le innegabili violenze vengono a suo avviso utilizzate come utile pretesto (magari utilizzando alla bisogna il feticcio - a suo dire illusorio- del modello inglese) per escludere i tifosi non graditi, portandosi verso un modello in cui saranno le società a scegliere gli spettatori a loro gradite. Senza infingimenti viene affrontato anche il tema del razzismo (piaga reale, da combattere, presente nella società prima ancora che negli stadi), citando l'opinione di uno studioso inglese che ha avuto il coraggio di individuare in certe becere espressioni insulti tribali, ma non espressione di razzismo. Che però sono utilizzati come un grimaldello, come un ulteriore strumento per criminalizzare indistintamente i tifosi delle curve. Diventano così il viatico e la giustificazione alle nuove restrizioni, la scusa per imporre negli stadi un linguaggio sempre più sotto tutela, addomesticato nel suo complesso.
Finalmente.
Quante volte l'avevo pensato, che certi insulti non erano razzisti (magari altri sì), ma rivolti a quello che nei novanta minuti viene identificato come il nemico di una lotta mortale.
E che l'educazione non si deve imporre per legge o per contratto, che il diritto di urlare "juvemerda" non ce lo possono togliere. Fanculo al "calcisticamente corretto".
Lo spunto merita attenzione anche ove identifica gli stadi come "palestre della repressione", ove si sperimentano istituti di dubbia costituzionalità come il DASPO, infatti poi riciclato per altre casistiche.
In un'altra pagina interessante Spagnolo spiega bene quello che molto più evidente che compreso, la differenza tra sportivo e tifoso. Chiaro che certe manifestazioni non sono sport: il tifoso parteggia, è fazioso, gufa, alla faccia di un finto perbenismo che ha stancato (insopportabile il senso di superiorità di quelli che ti spiegano come sia naturale tifare sempre per le squadre "italiane").
Nel suo accorato sfogo l'autore racconta poi delle improbabili maglie, dell'incomprensibile cambiamento dei loghi, dei calciatori-divi viziati. Prevede con precisione il fattaccio della Superlega. E finisce con un paio di belle storie ed il racconto di alcune iniziative che vogliono fa rivivere il "calcio popolare".
Forse è un po' qui, nella "pars costruens", che si arena la capacità di analisi (e anche un po' la rabbia) di noi che "non ci piace più".
E' davvero immaginabile un ritorno al passato?
E' davvero così ingiusto che lo spettacolo penalizzi i 10mila udinesi o 50mila milanisti, visto che favorisce qualche milione di sportivi (tra cui molti tifosi) seduti sul divano?
Non è bello lo stadio nuovo?
Buoni argomenti aiutano il calcio-showbiz a imporre le sue regole, è vero.
Ma quando il dilemma è chiaramente tra i soldi e la passione, non è difficile scegliere da che parte stare.
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