domenica 15 aprile 2018

Matti

E' da ieri che canticchio una vecchia canzone di Gino Paoli, "Matto e vigliacco" del 1991.
Non è una delle più note, è dell'album "Matto come un gatto", di cui comprai il vinile.
Il suo ricordo è nato dalle notizie provenienti dalla Siria, ovviamente, collegate al pensiero della faccia di Trump.
Il matto della canzone è uno che, con candore fanciullesco, non si fa affabulare dalle argomentazioni che di volta in volta vengo poste a fondamento dei vari interventi militari: 

Io sono solo un matto
ed un matto non capisce
i comandi che han bisogno
di brillanti spiegazioni,

se comandi di sparare
sono matto da legare
e mi lego ad altra gente
che non sa le tue ragioni,

gente anche un po' vigliacca
gente che non ha il coraggio
il coraggio di ammazzare
chi non sa perchè lo ammazzi.

Il matto si contrappone soprattutto a quelli che la guerra la giustificano, con motivazioni sempre diverse, sempre buone per il momento (e magari ma non per altre occasioni del tutto simili, o peggioti), ma mai abbastanza per spiegare perchè un uomo debba morire. Ce n'è anche per i loro lacchè, soprattutto nella stampa.

Il coraggio non è mio
il coraggio è quello tuo
tu che hai le tue ragioni
ed inchiostro da sprecare,

io invece sono insieme
a quelli che non possono capire
che non possono spiegare
che non vogliono morire

e l'idea per cui si muore
non è più quella di ieri
e l'idea per cui si muore
sarà vecchia già domani,

ma tu intanto temerario
a casa ammucchi le ragioni,
trovi giustificazioni
che noi matti
noi non capiremo mai.

Alla fine a morire sono in guerra sono i poveracci, magari quelli che non la comprendono proprio, non certo i signori che ci guadagnano sopra.

Ma chi muore nella guerra
è solo gente come me,
da tutte le parti
è sempre gente che non sa

e tu che la sai lunga
sulle cose della vita
come un arbitro in panchina
tu non giochi la partita
e la decidi tu.

Il matto non ha il coraggio, ma è il coraggio di non uccidere. Dovrebbe essere "umanità", ma alla fine sono gli animali, che non hanno una morale, a darcene lezione, loro ammazzano solo per mangiare.

Io sono un vigliacco
uno che non ha coraggio,
il coraggio di ammazzare,
chi non sa perché lo ammazzo

sono matto come un gatto
matto come un animale
che non sa che cos'è il bene
che non sa che cos'è il male

ma che ammazza per mangiare
e che spero mangi gente
che lo sa perfettamente
gente fatta esattamente come te.

La canzone è uscita ai tempi della prima Guerra del Golfo.
Molto tempo è passato, ed alcuni episodi in cui le motivazioni presuntamente umanitarie di certi conflitti sono state clamorosamente sbugiardate rendono sempre meno credibili le parole chi adduce nobili o almeno validi motivi per l'invio di un bel pacco di missili, enunciandone di diversi dalla necessità di nuove commesse per l'industria bellica.

giovedì 12 aprile 2018

Vincere è l'unica cosa che conta

Della famosa frase di Boniperti che capovolge il motto di De Coubertin gli juventini fanno spesso sfoggio con l'orgoglio del più forte.
Magari i dirigenti farebbero meglio a proporre qualcosa di più edificante; di certo un simile atteggiamento non aiuta ad accettare le sconfitte che, ormai sconosciute in patria, non mancano in Europa.
Ancora meno una sconfitta bruciante e tremenda come quella di ieri, dopo aver accarezzato il sogno di un'impresa (che era ancora da conquistare).

Il Real, diversamente dal Barcellona martedì, è stato sempre in campo. Ha mancato molte volte il gol nel primo tempo, ha regalato il terzo, ha invaso la metà campo dei gobbi per tutto il secondo tempo. Tuttavia con un po' di buona sorte l'ottima partita della Juve stava diventando, oltre che lezione di calcio (gli spagnoli hanno ripassato quella del giorno prima), un capolavoro.
Ci si è poi messo di mezzo quel rigore, ahi.
Era fallo, per me: penso che anche se tocchi il pallone travolgere l'avversario non sia consentito.
Al Bernabeu diventano rigore anche i mezzi falli, figuriamoci i tre quarti di fallo. Fine dell buona sorte e addio impresa del secolo.
Nel complesso delle due gare la sfida è stata equilibrata, e quindi decisa dagli episodi.
Perdere così, tuttavia, fa male; si può anche scaturire come ha fatto Gigi Buffon, per rispetto della grandezza del quale è bene che cadano presto nel dimenticatoio le parole che sono poi uscite dalla sua bocca.
Dai, ci sono anche altre cose che contano. Ad esempio onorare la scuola italiana come hanno fatto le nostre squadre ieri e ierlaltro

martedì 10 aprile 2018

Non bisogna arrendersi mai

Ce lo ha mostrato la Roma oggi.
Cuore, coraggio, un grande campione, e soprattutto una lezione di calcio ai migliori, primi in tutto compresa la presunzione.
Come nel 1994, quando Capello distrusse Cruyff
Un saluto agli amici spagnoli, eh!

Il corpo della ragassa

di Gianni Brera
Il romanzo con cui Brera volle compiere il suo destino di scrittore era una lettura che mi incuriosiva da gran tempo.
Il suo stile inconfondibile trova habitat naturale in una storia ambientata nel pavese alla fine degli '30, incastonandosi in una struttura narrativa con tutti i crismi, la cui forza è la capacità descrittiva, con tratti di lirismo, di personaggi e della civiltà contadina di cui si sentiva figlio.
La presenza dell'aspetto erotico fa del plot una perfetta sceneggiatura di un film alla Tinto Brass piuttosto che felliniano (e infatti ne fu tratto un film nel 1979 con Lilli Carati).

martedì 3 aprile 2018

Basta due, senza il tre

"A casa mia si dice che quando si parla una, due volte, alla terza è già troppo"

Il caso Moro. Una tragedia repubblicana

di Agostino Giovagnoli

Su Ibs nell'anniversario della strage di via Fani proponevano una trentina di titoli.
Ce n'era per tutti i gusti: libri apologetici, agiografici, sensazionalisti, retroscenisti.
Questo che ho scelto aveva la rara caratteristica di essere scritto da uno storico: che si è vista in una lettura complessa, a volte faticosa, del resoconto di un esame documentale certosino delle fonti.
La prospettiva è eminentemente la vicenda politica che nacque attorno alla possibilità della liberazione dell'ostaggio. 
La chiave di lettura è dichiarata nel sottotitolo: il sequestro di Moro fu una tragedia repubblicana,  i protagonisti i maggiorenti della Dc e degli altri partiti e dall'altra parte le BR.
L'esito tragico discende secondo l'autore non da oscure mene o da inconfessabili volontà, ma soprattutto dalla incomunicabilità dei due mondi, in buona parte dovuto all'autoreferenzialità ed ai limiti intellettuali e politici dei brigatisti.
La conclusione non indulge alla vulgata corrente:
Le conoscenze acquisite finora indicano che Moro è morto perché le Brigate rosse avevano deciso di ucciderlo e perché non intervenne alcun elemento che riuscisse a fermarle.
La responsabilità della sua morte è perciò di chi l'ha ucciso, dei suoi compagni e dei loro sostenitori, nonché dei loro mandanti occulti, se ci furono. Per quanto ci è dato sapere, Moro fu assassinato
per gli stessi motivi per cui era stato rapito, vale a dire non per ciò che egli era veramente, per ciò che aveva fatto davvero e per una reale convenienza politica dei brigatisti a rapido o a ucciderlo,
ma per il valore che questi attribuirono alla sua morte nella lotta contro lo Stato imperialista delle multinazionali, dentro una logica che confondeva il piano della realtà con quello dei simboli, anche
se l'assassinio di Moro fu un evento tragicamente reale.

Pasqua 1956

Altri tempi, quell'anno in cui mia madre bambina vide per la prima volta un uovo di pasqua.
Da queste parti non ce n'era per scialare, e mio nonno non era certo uno da farsi intenerire dai desideri di due bambini.
Fu la zia di Torino, città del cioccolato e del nascente miracolo industriale, a far avere ai pargoli la meraviglia, fino ad allora solo sognata, in un tempo in cui le immagini erano soprattutto nella fantasia.
L'emozione per il sogno fattosi cioccolato fu tanta che, al momento del dunque, mancò il coraggio di scartare l'uovo, sopraffatto dal desiderio di preservare una cosa tanto speciale.
"Lo terremo per l'anno prossimo."
E fu così che l'aprirono la pasqua successiva, ovviamente andato a male.