mercoledì 26 maggio 2021

Grazie, Gran Capitàn

In un tweet di augurio per il 27mo compleanno di Rodrigo De Paul, il profilo dell'Udinese riesce a descrivere la grandezza del campione argentino con poche parole: "Tecnica. Sacrificio. Velocità. Leadership"


Quando sei arrivato, con i crismi del talentuoso che aveva fallito la sua prima prova in Europa, ti sei  preso la responsabilità di mettere la 10 di Di Natale. Pensai: "la personalità ce l'ha, vediamo il resto".

In 5 anni in cui per noi tifosi le soddisfazioni sono state pochissime e sommerse da una messe di partite inguardabili, ci hai dato le uniche gioie, hai salvato la baracca quando serviva, sempre decisivo nelle partite che ci hanno garantito il mantenimento della categoria.

Hai dato tutto, di più di quel che ci si può aspettare da un campione delle tue caratteristiche. Alle giocate decisive e ai gol impossibili hai accompagnato tante rincorse degli avversari, i tackle affondati quando serviva, le proteste e la rabbia per le sconfitte proprie di uno che ci teneva.

Dal 1983 sono un abbonato, ne ho visti di giocatori, molti nazionali, ma una mezzala così forte e completa no (tecnica, grinta, visione di gioco, senso del gol, capacità di soffrire). Quest'anno hai giocato da fuoriclasse, le statistiche parlano e solo la stagione del Presidente può mettere in dubbio che tu sia stato il miglior centrocampista del campionato. Sei diventato un giocatore che, a mio sommesso parere, merita un livello superiore a quello di Inter Juve e Milan.

Sei stato leader ancor prima che capitano, di quelli che si fanno sempre dare la palla, perchè sono sicuri dei loro mezzi, ma che vogliono anche dare forza ai compagni.

Hai onorato questa maglia, non ci hai lasciato quando la tua partenza poteva mettere a rischio la salvezza, nell'ultimo anno hai preso in mano la squadra da condottiero non solo tecnico, ma anche comportamentale.  

Ti sei comportato da uomo, e da persona che ha capito e rispettato la gente in mezzo alla quale era venuto.

Prima di te abbiamo avuto tanti grandi capitani, non tutti grandissimi giocatori, ma uomini che hanno mostrato cosa vuol dire amare l'Udinese: Galparoli, Calori, Sensini, Bertotto, Di Natale. Sei degnamente uno di loro.

Quella maglia numero 10 ora è la maglia di tre grandissimi campioni, Zico, Di Natale e De Paul.

Grazie, Gran Capitàn

  


mercoledì 19 maggio 2021

Date a Pannella quel che è di Pannella

Francesco Merlo dedica a Pannella un pezzo all'altezza dei suoi migliori, nel quale trova il modo di ricordare le parole di Sciascia, le più adatte a descrivere l'incontro (non solo il suo) con lui: "non sapevo che saresti venuto ma quando l' ho saputo ho capito che ti stavo aspettando"
Molto più di una cancel culture la sinistra italiana ha bisogno di una glorify culture e non certo per chiedere scusa a Marco Pannella, che sarebbe un indulgere al vittimismo, ma per elevarlo ad archetipo italiano della libertà, accanto a Gramsci e a Salvemini, che sono gli archetipi del pensiero, e a Garibaldi, che è l'archetipo dell'uomo d'azione.
Archetipo della libertà. 
Chissà che pian piano non diventi vero quanto scrivevo cinque anni fa, rivolgendomi a Marco: "forse passata l'emozione sarai finalmente riconosciuto come un padre della patria".
 

Con un canestro di parole nuove, calpestare nuove aiuole

martedì 18 maggio 2021

I figli che non vogliamo (vogliono)

E' raro leggere un pezzo interessante, profondo, sincero come quello scritto da Ritanna Armeni e pubblicato su "il Foglio" di ieri.

L’Italia invecchia, fa pochi figli ma l’opinione pubblica sorvola sulle vere cause della crisi demografica.

Da donna di una generazione che le battaglie per i diritti le ha combattute decenni fa, prova a capire cosa c'è nella testa e nel cuore delle giovani (?) amiche che sempre in maggior numero prendo la decisione di rinunciare alla maternità, e riesce a farlo senza giudicare, senza diventare uno di quei genitori che non riescono a riconoscere degli altri se stesso nei figli di cui criticano le scelte.    

Rivolgendosi a Draghi che ha parlato preoccupato del tema in una sede in cui la questione è stata trattata come problema demografico, prova a spiegargli che non sono giovani, a ben vedere, queste ragazze che dovrebbero riprendere a fare figli. E non è certo un problema economico che le induce alla loro scelta. 

Hanno fatto una scelta di vita; che la Armeni capisce: "Le mie giovani amiche, presidente Draghi, mi piacciono. Anche quando mi irritano. Mi piace quando difendono la loro libertà e non accettano di farsi imbrigliare. Quando finalmente rifiutano ogni ipocrisia affermando che un figlio le metterebbe in una sorta di custodia cautelare e loro non hanno nessuna voglia di rinunciare alla loro libertà, ai loro progetti. Un tempo affermazioni di questo tipo venivano solo o soprattutto da esponenti del sesso maschile. Ragazzi sicuri alcuni, Peter Pan altri, inseguiti da ragazze che volevano una relazione più stabile e anche, magari, a un certo punto un figlio. Mi piace che apprezzino la vita che si sono costruite. Sono “cattive ragazze”, sono egoiste forse, pretendono, non si lasciano abbindolare dai buoni sentimenti. Hanno osservato bene le fregature subite dalle loro madri e dalle loro nonne. Non vogliono corde, anche amorevoli, che le leghino. Hanno spiccato il volo e va bene così." 
E' una scelta che ricorda ad Armeni quella della sua generazione: Anche allora non accettavamo l’obbligo alla maternità, non volevamo che la biologia interferisse con la libertà, che per noi donne ci fosse un destino segnato. Era una scelta che somiglia molto a quella delle mie “cattive ragazze”. Ma noi, pur di vincere, facemmo un compromesso con l’immaginario femminile prevalente nella società. Parlammo di donne povere e disperate che di figli ne avevano già tanti e non potevano permettersene un altro, di pericoli per la vita della madre, di giovani spezzate da un avvenimento non previsto e che erano costrette a privarsi del loro bambino, di aborto come dramma.

Ora non è più necessaria quell'ipocrisia, che era anche un po' la ricerca di alleanze. "Non temono di mostrarsi “cattive”. Dicono la verità e possono permetterselo perché la loro libertà è maggiore della nostra e ha già modificato i rapporti con l’altro sesso.

C'è stato un salto che ha rotto un equilibrio. Le donne della generazione di Armeni Avevano studiato e, contrariamente alla generazione precedente, avevano sempre contemplato il lavoro come elemento essenziale della propria esistenza. Ma i loro compiti nella famiglia erano gli stessi. Se volevano un figlio, o se un figlio capitava, sapevano di dover “fare dei sacrifici”. Ed ecco la capacità di essere multitasking, di lottare su più fronti: l’azienda, i bambini, le relazioni familiari. Per questo sono state lodate dai politici e dai sociologi. Così piacerebbero ancora. Con la “doppia presenza”, in questo modo veniva e viene chiamata e la società e lo stato si assolvevano e mettevano da parte le loro mancanze. Le donne, poi, erano addirittura orgogliose di essere capaci di fare tutto. Alcune guardavano con sufficienza gli uomini pigri e viziati che sapevano dedicarsi solo al lavoro. Loro erano differenti. Esauste, prive di un momento solo per loro (e la libertà?) ma capaci di fare tutto. Potevano essere madri e lavoratrici. Che meraviglia!
Le “cattive ragazze” di oggi sono figlie e nipoti di quelle donne e hanno visto. Le hanno viste affaticarsi fra un lavoro spesso non interessante (perché, per fare carriera, occorre un tempo maschile) e il carrello del supermercato, le hanno osservate mentre erano divise fra le ambizioni e la famiglia, hanno assistito al ridimensionamento dei desideri e allo sgretolarsi dei sogni. Hanno visto. E nella loro mente hanno annotato.
E’ stato così che l’equilibrio si è rotto. Le “cattive ragazze” hanno preteso una libertà maggiore di quella delle loro madri, di sacrifici e dedizione non vogliono sentirne parlare e il secondo piatto della bilancia, quello che conteneva l’accettazione dei sacrifici e dell’incerto è saltato in aria.
Ci sarà un nuovo equilibrio? Per averlo Lo stato e la società devono dimostrare alle “cattive ragazze”, e nei fatti, che la maternità non ridurrà la loro libertà, all’opposto la renderà più ricca, più forte e più autentica.
Dall'altra metà del cielo poche illusioni: Non credo che avverrà. La società degli uomini è abituata a sottovalutare le donne. Non è sufficientemente allarmata. Preferisce rassicurarsi invece che aprire gli occhi su quello che sta accadendo.
Ma anche le donne hanno la loro responsabilità: La libertà, diceva un cantante che durante la mia giovinezza era tanto amato “non è uno spazio libero”. Non è conservazione di un futuro immaginato che si contrappone a un passato che non piace. E’ fatto anche di audacia, di capacità di rischio e di sfida. Invece spesso sono poco coraggiose. Deluse dalla politica non la inchiodano alle sue responsabilità, non pretendono, non urlano. Si ritirano in quel che il mondo permette senza accorgersi che anche la loro libertà è comunque limitata, di seconda mano. E’ solo quella che la società degli uomini è disposta ad accordare a una minoranza delle donne del pianeta, in una ristrutturazione del rapporto fra i sessi che dominiamo ancora poco. E che, invece, dovremmo prendere più saldamente in mano. Il problema delle donne della mia e della vostra generazione è l’incapacità di rischiare di sbagliare.

giovedì 6 maggio 2021

Contro il calcio moderno

 di Pierluigi Spagnolo

Una volta mi compiacevo quando, dopo aver formulato un'idea, la ritrovavo in libri, articoli di giornale o dichiarazioni in televisione. Un po' di frequentazione dei social fa capire agevolmente che, per quanto originale, quasi ogni pensiero che si formula si affacciato anche alla mente di molti altri, e toglie un po' di soddisfazione. 
Tuttavia, ne rimane, a vedere nero su bianco, e assemblati per cercare un senso, più di qualche idea  che ho ruminato negli ultimi anni.
E' un libro di parte: dalla parte dei tifosi. 
Una categoria che l'evoluzione del movimento vuole evidentemente eliminare, trasformando i tifosi in spettatori passivi e consumatori. In clienti. Senza neppure riconoscergli quel diritto, che è proprio dei clienti, ad avere sempre ragione. Sembra invece che i tifosi abbiano sempre torto.
Gli stadi in teatri (l'autore mutua dall'urbanistica la definizione di "gentrificazione" degli stadi), con prezzi non alla portata di un pubblico popolare, ma di "turisti del pallone" e benestanti che rendano il pubblico addomesticato e meno problematico. Con l'illuminazione psichedelica, le formazioni all'americana. Le esultanze guidate, la musica che copre i cori.
Le maglie più impensate, i loghi stravolti, le partite all'estero o ad orari impensati.
Calciatori pagati come divi, a tutto discapito di bilanci inesorabilmente gonfi di debiti irredimibili.
Spagnolo offre cronaca, dati e riflessioni su un percorso iniziato negli anni 90 e ormai arrivato ad un passo dall'esplosione del sistema. E diversi spunti molto interessanti.
La premessa è la definizione delle caratteristiche del calcio moderno:
- la sovraesposizione mediatica, con tutte le partite in diretta e a pagamento;
- la scomparsa della ritualità domenicale in favore dello spezzatino;
- la svolta finanziaria, con conseguente aumento del divario tra le società maggiori e quelle minori;
- la crescita di spesa per ingaggi e acquisto dei calciatori
- la perdita di centralità dei tifosi;
- la demonizzazione del tifo organizzato ed in particolare degli ultras.
All'ultima Spagnolo dedica pagine che fanno riflettere, offrendo un punto di vista diverso sul movimento ultras, ultima controcultura e (anche nei suoi aspetti deteriori) specchio di una società di cui si vuole nascondere la parte più genuina ed appassionata. Le innegabili violenze vengono a suo avviso utilizzate come utile pretesto (magari utilizzando alla bisogna il feticcio - a suo dire illusorio- del modello inglese) per escludere i tifosi non graditi, portandosi verso un modello in cui saranno le società a scegliere gli spettatori a loro gradite. Senza infingimenti viene affrontato anche il tema del razzismo (piaga reale, da combattere, presente nella società prima ancora che negli stadi), citando l'opinione di uno studioso inglese che ha avuto il coraggio di individuare in certe becere espressioni insulti tribali, ma non espressione di razzismo. Che però sono utilizzati come un grimaldello, come un ulteriore strumento per criminalizzare indistintamente i tifosi delle curve. Diventano così il viatico e la giustificazione alle nuove restrizioni, la scusa per imporre negli stadi un linguaggio sempre più sotto tutela, addomesticato nel suo complesso.
Finalmente
Quante volte l'avevo pensato, che certi insulti non erano razzisti (magari altri sì), ma rivolti a quello che nei novanta minuti viene identificato come il nemico di una lotta mortale. 
E che l'educazione non si deve imporre per legge o per contratto, che il diritto di urlare "juvemerda" non ce lo possono togliere. Fanculo al "calcisticamente corretto".
Lo spunto merita attenzione anche ove identifica gli stadi come "palestre della repressione", ove si sperimentano istituti di dubbia costituzionalità come il DASPO, infatti poi riciclato per altre casistiche.
In un'altra pagina interessante Spagnolo spiega bene quello che molto più evidente che compreso, la differenza tra sportivo e tifoso. Chiaro che certe manifestazioni non sono sport: il tifoso parteggia, è fazioso, gufa, alla faccia di un finto perbenismo che ha stancato (insopportabile il senso di superiorità di quelli che ti spiegano come sia naturale tifare sempre per le squadre "italiane").
Nel suo accorato sfogo l'autore racconta poi delle improbabili maglie, dell'incomprensibile cambiamento dei loghi, dei calciatori-divi viziati. Prevede con precisione il fattaccio della Superlega. E finisce con un paio di belle storie ed il racconto di alcune iniziative che vogliono fa rivivere il "calcio popolare".
Forse è un po' qui, nella "pars costruens", che si arena la capacità di analisi (e anche un po' la rabbia) di noi che "non ci piace più".
E' davvero immaginabile un ritorno al passato?
E' davvero così ingiusto che lo spettacolo penalizzi i 10mila udinesi o 50mila milanisti, visto che favorisce qualche milione di sportivi (tra cui molti tifosi) seduti sul divano?
Non è bello lo stadio nuovo?
Buoni argomenti aiutano il calcio-showbiz a imporre le sue regole, è vero. 
Ma quando il dilemma è chiaramente tra i soldi e la passione, non è difficile scegliere da che parte stare.




sabato 1 maggio 2021

Nell'Italia degli odiatori per fortuna c'è Gemma Capra

La vicenda dei 7 ex terroristi (ingiusta formula semplificatoria) arrestati in Francia, in vista di una possibile estradizione, è di quelle che appaiono troppo semplici quando se ne apprende la notizia, e troppo complessa quando si comincia ad approfondire.

Sono portato a rifuggire dalla reazione quasi unanime di plauso alla giustizia finalmente fatta, che mi sembra un riflesso della passione nazionale per le manette e il carcere. 

La lettura contraria, che pur si richiama agli stessi fondamentali principi della prescrizione, e per la quale sarei portato ad aderire per spirito libertario e per stima delle persone che la propongono (cito Ferrara, Manconi e Sofri), non mi convince tuttavia appieno.

Sofri la formula più o meno così, ricordando che nessuno dei rifugiati in Francia ha mai più commesso delitti: “la cosiddetta dottrina Mitterrand ha realizzato il fine più ambizioso e solenne che la giustizia persegua: il ripudio sincero della violenza da parte dei suoi autori, e così, con la loro restituzione civile, la sicurezza della comunità. La Francia repubblicana è riuscita dove il carcere fallisce metodicamente”.

Una risposta può essere quella di Benedetta Tobagi: "Nel tumulto degli anni Settanta, milioni di italiani fecero politica in modo non violento, con le manifestazioni, la disobbedienza civile, le battaglie processuali e la controinformazione. Perché, dunque, dovrebbero veder cancellate le proprie condanne gli ultimi di quei pochi che scelsero le armi? Questa giustizia, lenta ma ferma, non è solo per le vittime, è per tutti coloro che all’epoca non deragliarono, sopportando la fatica e le frustrazioni della pratica democratica”. E' un concetto che fa riflettere, anche perchè pur formulato dalla figlia di una vittima, inquadra la questione dal punto di vista del resto della società. E' un po' l'argomento contro i condoni, fondato sull'attenzione a chi ha rispettato le regole.

L'impressione è che rischi di diventare una discussione per pochi, per i pochi che parteciparono (o furono) vittime di quegli anni terribili, mentre proprio il passare di troppo tempo rende ormai impraticabile l'unica soluzione possibile (e nei fatti sollecitata dalla dottrina Mitterrand), quella politica.

Per fortuna capita di imbattersi nella intervista di Mario Calabresi con sua madre Gemma Capra, che è bello ascoltare in podcast.

Avevo già letto il racconto di Calabresi di come la madre abbia educato lui ed i fratelli a rifuggire l'odio verso chi li aveva privati del padre, per non essere costretti a provare una seconda tremenda perdita, un vita intrisa di rancore.

Dall'intervista emerge una grande e commovente lezione di una persona che è riuscita ad andare oltre l'odio, aiutata dalla fede, dalla vicinanza di molte persone, ma direi soprattutto da una grande intelligenza, che emerge da una frase come questa: "Una persona ha fatto cose negative ma anche tante cose positive, ricordiamolo per le cose positive, per il buon esempio, per il suo affetto, per la capacità di amare gli altri, ognuno ha un suo cammino. E così ho pensato anche di queste persone responsabili della morte di Gigi. Posso io relegare tutta la vita all’atto più brutto che probabilmente hanno compiuto? Forse sono stati dei bravi padri. Forse hanno aiutato gli altri. Forse hanno fatto…Questo non sta a me. Però loro non sono solo quella cosa lì, assassini, sono anche tante altre cose. Ecco, questo mi ha aiutato nel mio percorso di perdono».

Che esempio, che lezione, nell'Italia degli odiatori.