domenica 17 marzo 2024

La guerra dei trent'anni

 di Filippo Facci

Lettura non semplice, quasi 770 pagine, un concentrato di fatti che Facci tiene a ricordare e catalogare in una cronaca giornaliera incentrata sul periodo dall'arresto di Mario Chiesa alla caduta di Berlusconi.

Trattandosi del "Dipietrologo" per eccellenza la parte iniziale in realtà spazia nel periodo precedente, in cui il non ancora famoso magistrato molisano non disdegnava compagnie e favori del tipo che ad altri fece poi pagare ben caramente.

Inframezzati da ricordi personali e da talune viste con il senno del poi, soprattutto esiti giudiziari e giudizi dei protagonisti rilasciati a mente fredda, sono soprattutto le forzature delle regole e l'enormità di certi errori giudiziari ad essere protagonisti di una rassegna in cui Facci ha voluto compendiare un considerevole lavoro di archiviazione, ragguardevole anche per un cronista di uno stampo che forse s'è perso.

L'opinione dell'autore non è certo un mistero, in decine di occasioni i fatti gli permettono di ricordarla, in particolare ove individua l'autentico motore di Mani Pulite nell'utilizzo della carcerazione per ottenere confessioni e chiamate in correità, meglio ancora nelle condizioni che reso possibile l'abuso che esso configurò.

Alcuni passaggi (arresti sulla base di confessioni rilasciate dopo ad esempio) non mancano di destare impressione, mentre le pagine più corrosive sono riservate (oltre che a uno Scalfaro dileggiato come nessuno) ai colleghi "fiancheggiatori".

Utile è rivivere in chiave diversa momenti che all'epoca videro anche noi con la maggioranza che credeva di assistere ad una rivoluzione, che poi fu rivoluzione mancata, della quale financo i più colti dei protagonisti ebbero poi modo di "scusarsi" (leggi gli amari giudizi ex post di Borrelli e Colombo).

L'aspetto forse più interessante, che emerge nelle pagine finali ove la cronaca lascia spazio (anche) ad un tentativo di giudizio complessivo, è l'individuazione (interpretazione condivisa dai magistrati) della fine del consenso all'inchiesta quando dal "crucifige" rivolto ai potenti, ai grandi leader politici, essa si volse alle illegalità più diffuse, alle quali non era estranea larga fetta di quella "società civile" che si era creduta "il lato buono" del sistema. Il legame della corruzione all'evasione fiscale, e quanto quest'ultima sia consustanziale a molti dei mali del nostro paese, alla sua ritenute irriformabilità, è oggetto di una delle pagine più lucide, che merita senz'altro di essere rimeditata.

Il giudizio spazia poi inevitabilmente sul ruolo della magistratura come vero problema nazionale, e qui l'opinione può essere discusso ma trova a mio avviso ben validi appigli.

La base di ogni corruzione resta l'evasione fiscale, e Mani Pulite non ha portato a nuovi codici o moralità condivise; anzi, fu proprio il timore che l'inchiesta giungesse a lambire il "nero di sopravvivenza" che nel 1994 spense ogni fuoco rivoluzionario e riaccese quel diritto di insubordinazione allo Stato (e dello Stato fa parte la magistratura) che gli italiani si portano dietro da sempre. Ora come allora, nessuno si indigna per gli evasori fiscali, a meno che non siano di ricchezza esuberante e perciò soggetti a invidia sociale. Nessuno associa gli evasori a un danno anche per se stesso, Nessuno pensa che un sacco di gente fruisce di servizi che non ha contribuito a pagare. nessuno collega l'evasione al debito pubblico che durante la "rivoluzione" fu messo in conto ai soli partiti. Nessuno soprattutto, si illude che gli evasori abbiano una connotazione politica. Il discorso non è quello dei nullatenenti con lo yacht, o del popolo che paga in nero - si è scoperto- anche le bare. In Italia persiste una mentalità pre-civile che vede in ogni tassazione quel genere di prevaricazione indebita che per secoli appartenne al gabelliere straniero, come se fossimo ancor nel 1860 e tuttora reduci dalle occupazioni di arabi, austriaci, francesi o spagnoli.